Su queste salite non sono mai d’accordo. Toglierei anche il Muro di Sormano dal Giro di Lombardia, figuriamoci quello di oggi, a Guardiagrele. I percorsi con lo spettacolo a tutti i costi non mi piacciono e guardando i ciclisti su quelle pendenze proibitive non mi diverto. Sarà che il ciclismo è uno sport così caleidoscopico che non ha bisogno di salite ammazza gambe per essere emozionante, commovente. Sarà che certe azioni arrivano quando meno lo si aspetta e, come tutte le cose improvvise, sono più belle. Sarà che non si può pretendere di dimenticare gli anni neri del doping mettendo sotto le ruote strappi senza pietà come questi.
Eppure ancora una volta i ragazzi che di giorno in giorno si bevono le salite nei bicchieri della loro quotidianità hanno dimostrato che c’è sempre un solo modo per andare avanti: pedalare, stringere i denti. E pedalare.
Alberto Contador (Team Tinkoff- Saxo), Ben King (Team Garmin-Sharp) e Simon Geschke (Team Giant-Shimano) hanno storie diverse ma si sono trovati insieme a condividere il terribile Muro di Guardiagrele con pendenza massima del trenta per cento. King e Geschke sono i due sopravvissuti della fuga partita al chilometro zero: pochi istanti dopo il via. Si sono fatti tutta la tappa a cercare di seminare il gruppo, accumulando secondi e poi minuti. Poi sul Passo LancianoQuintana scatta e Contador gli sta sotto: Michal Kwiatkowski, il leader della Tirreno Adriatico getta la spugna metro dopo metro e loro due stanno mettendo gli occhi sulla stessa maglia. Alberto Contador è costretto a staccare il suo rivale sudamericano che scatta in continuazione, quando lui vorrebbe attendere il momento giusto. Il momento è ora, quando si tratta di mettere fine agli indugi e andare a riprendersi da solo la testa della corsa.
Quando raggiunge King e Geshke, il gruppetto dei migliori è lontano. Con lui c’è Adam Hansen, americano della Lotto Belisol, che gli sta a fianco come uno strano scudiero. Cominciano assieme la salita che farà da antipasto a quei seicento metri di dolore puro prima del traguardo. Un preludio silenzioso e costante che non preparerà mai le gambe abbastanza a quel tratto che deciderà la corsa. Una dura selezione naturale, una partita ad esclusione.
Ai piedi del Muro di Guardiagrele ci arrivano in tre: Contador King e Geschke si spartiranno quei metri. Il gruppo è ancora lontano quando le pedalate si fanno legnose. No, non hanno finito la benzina, non c’è l’ombra di una crisi ma è la strada che sale arcigna, cattiva. Gambe d’asfalto ci vogliono, qui, come quello che gratta sotto le ruote. Gambe inesorabili come quella strada che non molla mai. Nessun piede a terra è concesso. Le biciclette vanno a zig zag perché certe volte non si può affrontare il nemico guardandolo diritto negli occhi. I tre si scambiano, il primo arranca, l’ultimo tenta un piccolo scatto di coraggio. Poi Contador e Geshke lasciano indietro King. Il corridore della Giant Shimano tenta di stare a ruota dello spagnolo che, sul tornante più duro, sembra avere le ali. Se ne va da solo, tra la folla abbarbicata su quella salita tremenda. Geshke non molla anche se il pistolero rinato ha fatto il vuoto dietro di lui, lo insegue ancora e ancora, fino all’ultimo tornante. Fino alla fine, trascinandosi dietro tutti i chilometri in fuga di quel giorno: la stanchezza, la fatica, le gambe d’asfalto che gli sono servite per arrivare fino a lì, sotto la ruota di Alberto che taglia il traguardo e mette quasi due minuti di vantaggio tra lui e il secondo in classifica generale. Un altro sparo nel cielo azzurro di questa Tirreno. La forza di sorridere non ce l’ha, Guardiagrele gli ha tolto tutto, pur regalandogli questo sogno: la corsa, la rivincita sulla stagione scorsa andata male. E’ così nel ciclismo, a volte si baratta tutto per un traguardo. Ma la strada, spesso, non sta ai patti. Si vede dalla fatica che segna le facce contratte dallo sforzo disumano di quelli che arrivano dopo Alberto: prima Geschke, poi King e tutti gli altri, a uno ad uno. Gli occhi nascosti dietro gli occhiali e i denti stretti. Battuti da quel muro che ha annullato tutti gli altri chilometri, gli scatti, le gambe di quelli che credevano di potercela fare, di avere una speranza. In questo sport bisogna arrivare al traguardo per sapere se è valsa la pena, se è stato giusto regalare il coraggio.
Le lacrime di commozione trattenute da Alberto Contador sul podio e quelle negli occhi lucidi di chi è sceso in fretta da quel muro infernale per tornare all’albergo, sotto una doccia, nelle mani pietose di un massaggiatore, sono della stessa sostanza. Una sola riga li divide, quella bianca: Contador di qua, tutti gli altri di là.
Sì, forse è vero, non mi piacciono queste salite, non mi diverto a vedere che i ragazzi sudano l’anima su queste pendenze da inferno. Però il ciclismo è uno sport crudo, un diamante grezzo: bisogna amare prima la scorza ruvida per capire la bellezza del suo nocciolo. I ciclisti lo sanno e forse stasera prima di addormentarsi sentiranno i muscoli protestare. Ma chiuderanno lo stesso gli occhi perché la prima lezione, quella che imparano sulla loro pelle prima di molte altre, non cambia: bisogna pedalare, stringere i denti e pedalare ancora.