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Passati nove mesi e chissà quanti giorni e quante ore stava ancora immobile davanti a quel pensiero, a quel punto di domanda, a quelle quattro righe solite, per lei mai scontate.
Era solo un modo come un’altro per stargli intorno, per avvolgersi in qualcosa di più caldo.
Ma questa volta, l’incipt e il tono vollero essere quelli di una lettera normale, una comunicazione piatta, di servizio, senza tanti singulti sentimentali e ghirigori.
Non era successo nulla di strano, niente di così eclatante. Forse, quel filo che li univa si era spezzato inavvertitamente.
Caro Davide,
Sono cinque anni, nove mesi - e non mi va più di sapere quanti giorni- che ti spio da vicino, ti osservo da lontano, ti cerco ogni giorno, e voglio e spero per te tutto il bene possibile. Ma tu guardi da un’altra parte e, se fai finta, non lo saprò comunque.
Ho cercato di rendermi indispensabile e forse per questo mi hai chiesto di andare via.
Sai benissimo che non sono la donna fragile che ti ho voluto mostrare, non sono quella che hai visto entrare quel giorno investita da una luce abbagliante, quella che è caduta ai tuoi piedi, e non per colpa degli stivali troppo nuovi e troppo alti.
Mi sono avvolta per anni nell’illusione di amarti solo per avere qualcuno da cercare, per sentirmi meno sola, per farti dire tutto quello che nessun uomo mi ha mai detto –o forse sì ma io non ho sentito-.
Ricordi quando è cominciato tutto? Ricordi come?
Era notte fonda e stavo davanti al tuo albergo. Indossavo un cappotto rosso, la ma ultima folle spesa londinese, e tu mi domandasti se avessi bisogno di aiuto.
Fai uno sforzo Davide, so bene che ricordi.
Risposi che cercavo un taxi e che avevo freddo e allora tu decidesti per qualcosa di forte, e da lì a chiedermi di lavorare per te passarono pochi minuti, forse il tempo di guardarci ancora negli occhi.
Quel giorno avevo fatto un bellissimo intervento e avevo messo in difficoltà il relatore e tu, dalla seconda fila a destra, mi guardavi di continuo.
Forse trovavi interessante ciò che dicevo, non lo metto in dubbio.
E comunque, non potrò mai saperlo.
Ma questa volta, Marina non scriveva al computer.
Quelle righe, erano state precedute da un rito, da una decisione forte: spedire finalmente quella lettera.
Aveva pulito e poi riempito di inchiostro rosso brillante una penna stilografica infantile, una di quelle che usava adolescente per scrivere il diario, uno dei tanti.
In piedi sul comodino, instabile, prese una scatola che giaceva lì sull’armadio chissà da quanto tempo poi, dopo un viaggio nel passato che durò giusto il tempo di un paio di respiri profondi, tirò fuori la carta da lettere, quella con le iniziali colore su colore, piccole e discrete.
Rosa pallido o grigio chiaro?
Risolto il dubbio e bevuto del tè al limone Marina raccolse i suoi pensieri e li distese sul foglio.
Ora che lo sguardo si era allontanato da Davide a causa di un luccichio colorato che un piccolo specchio veneziano proiettava sulla parete, si alzò in cerca degli occhiali.
A quell’ora e d’inverno il buio già monopolizzava quei pochi metri quadri in discesa e, nel cuore della città vecchia, a parte il basso continuo dei motori in fuga, non si sentivano che rare voci di passanti.
E ricordò di quell’altra volta, a Milano, quando il Professore stanco di camminare, la portò a mangiare un panino al lazzaretto, in quel porticato circolare che a pensare a quanta sofferenza ci aveva sostato, magari distesa proprio lì dove erano seduti, Marina si sentiva morire; e c’era la stessa luce quel pomeriggio di fine estate: la sagoma buia che s’impossessa dell’espressione, e non distingui altro che una debole ombra che a un certo punto svanisce, come ingoiata dal blu cobalto del cielo.
Mi ero appena laureata e negli ultimi mesi avevo convissuto con le tue parole, dormito con i tuoi saggi, ascoltato tutte le conferenze che ero riuscita a trovare.
Quella sera, in hotel, osservai di nuovo il tuo sorriso, e a stretta distanza stavolta. Il sorriso che conoscevo già, quello che tiravi fuori se incontravi un tuoi pari, assai raro dunque. E finalmente guardai le tue mani ancora giovani già sapendo che le avrei viste ancora muoversi attorno al microfono anziché a un bicchiere e le avrei anche sfiorate e magari strette.
Che cretina!
Quando eri più giovane, ti animavi di più e le domande, quelle provocatorie, ti mettevano a tuo agio. E quelle sorprendenti, ti rendevano felice.
Ti avevo visto più volte arringare, firmare le copie dei tuoi saggi, spiegare i tuoi percorsi mentali, le ragioni di quell’ideologia, di quel momento storico. Ti seguivo con lo sguardo fin quando potevo, fin dove non era troppo rischioso incontrarti: mi mettevi in soggezione.
E mi fai sempre lo stesso effetto nonostante tutto.
Nonostante io non ti abbia mai amato veramente.
Il suono del citofono, un solo trillo e acuto e troppo rumoroso per quel piccolo appartamento e per il suo stato d’animo, la tolse da un impaccio: scegliere se piangere o fare a pezzi quella lettera e scendere a fare la spesa.
Ma il mondo esterno che di continuo scorreva lì fuori indifferente a quella specie di amore, aveva bussato alla sua porta.
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