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Pensando a George Harrison, nel decennale della sua scomparsa

Creato il 29 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da giovanniag su novembre 29, 2011

Pensando a George Harrison, nel decennale della sua scomparsa

Tratto da I DIARI DI RUBHA HUNISH, di Davide Sapienza, Galaad Edizioni 2011, pagine 206-209

1 dicembre 2001. George Harrison. Bivacco Presolana.

Sono nel posto dove oggi volevo essere per il mio saluto a George, il beatle giovane. Sono passati quasi quattro anni da quando salii nella neve sino a quassù per rendere il mio omaggio a Claudio, artista amico scomparso dal nostro orizzonte, senza preavviso. Questo sembra proprio essere il luogo giusto per ascoltare la partenza di chi sta lasciando il pianeta terra. Era sabato allora, è sabato anche oggi. Era giovedì allora, è stato giovedì anche questa volta.
Ho portato con me la sua musica scegliendo le canzoni per cercare di catturare qualcosa che non so cosa sia. Sono qui per interrompere il consueto scorrere dei pensieri, delle emozioni e delle parole; so che ascolterò queste canzoni come mai le ho ascoltate, né come mai le ascolterò più.
Se non fosse una preghiera, mettere le cuffie in questo ambiente sarebbe sacrilegio. Ho asciugato il sudore dalla fronte e dal viso, ma sento l’umidità vicino agli occhi. Potrò viaggiare abbracciando la valle dell’Ombra, posandomi sulla cima delle Corzene, scivolando leggero verso la grande parete sud per adagiarmi delicato sulla terra di nessuno alle mie spalle. È lì che tutte le emozioni vanno a ritrovarsi.

While My Guitar Gently Weeps l’ho scelta dai demo del White Album. E’ un provino semplice: voce, chitarra, qualche verso in più, come…”attendo in disparte”…era solo il 1968. Un ragazzo di venticinque anni catapultato in dimensioni inafferrabili, alle prese con un tentativo di ricolleggarsi a se stesso.

Blue Jay Way è un balzo ancora più lungo. E’ il 1967, mi tornano alla mente le immagini di Magical Mistery Tour, loro quattro vestiti di sogni, i gialli, i viola, i blu, George che racconta un viaggio. Questo magma di suoni scorre nelle mie orecchie, mentre sto seduto sullo scalino metallico del rosso bivacco, rapito da chissà quali ricordi. Davanti a me, le nuvole basse sembrano prese da un mondo lontano, come se qualche corrente celeste le abbia calate qui.

Within You Without You, “la vita scivola dentro e fuori di te”. George ha compiuto un cammino e partendo da quel giorno lo ha comunicato ai milioni di orecchie. Ci ha invitato a non “nascondersi dietro un muro di illusione/ incapaci di cogliere il bagliore della verità/ se non quando è tardi”. Lui ha percorso la sua strada assieme alla vita, che scivola dentro e fuori. Siccome i pensieri si interrompono, tornano nella notte, ma i ricordi no, proprio ora rivedo quella pagina iniziale di Fire nell’estate 1987, in apertura di rivista…caro George.

Isn’t It A Pity. Ruotando la mia anima come una cinepresa noto che è offuscata dalle lacrime. Guardo l’avvallamento nel quale si materializza il sentiero verso la grotta dei Pagani. Guardo la Presolana. Piango perchè accetto la morte, perchè mi sto preparando ad accoglierla in qualsiasi attimo, chiedendo di essere accolto a mia volta; so che devo imparare a guardare tutto questo con amore, perchè un giorno mi verrà chiesto di rinunciare a tutto e potrei anche non avere il tempo di rispondere. E’ il prezzo per poter accedere a quell’infinito di cui noi e questa bellezza, siamo solo meravigliosi frammenti.

My Sweet Lord. I really want to see you. “La musica è amore”. Cantavano questo Brian Wilson e David Crosby. La musica unisce gli spazi vuoti tra questi frammenti di infinito, perchè è l’immaginazione che si fa suono: racconta l’immaginazione che spreme i sogni sino a farne flussi di emozioni, mani che modellano le pareti dell’anima, dei polmoni, della mente.

Wah Wah. Oltre Pozzera il cielo è azzurro. Sotto ci sono le nuvole di prima, ancora intente nella loro lenta processione; più sopra la neve è scarsa, come se fosse stata spruzzata da una mano poco generosa. Come se fosse l’annuncio di un arido inverno.

What Is Life? Ho davvero amato moltissimo queste meravigliose canzoni di All Things Must Pass. Ma solo in questi momenti mi rendo conto della forza interiore e del messaggio che George ha cercato di lanciare attraverso le onde umane delle epoche che ha attraversato, lui giardiniere dei propri suoni. Ci ha dato un messaggio d’amore e di finitezza e la sua missione di artista si è compiuta in quei febbrili cinque anni dal 1966 al 1971, sino al Concert for Bangladesh. Sono gli stessi anni in cui Fred
Neil, scomparso anch’egli in questo stesso anno, era quasi riuscito a trovare i delfini che andava cercando nei mari dei propri incubi.
Che effetto essere qui in pieno silenzio quando la musica finisce. Silenzio più silenzioso di sempre. Nessuno che sale da nessuna parte. Come se mi avessero lasciato officiare il rito da solo.

What I feel, I cant’ say… Mi sembra che in questa ora si stia compiendo l’unione fisica tra il me fatto di musica, il me fatto di parole, il me fatto di cielo, il me fatto di amore. Non so bene cosa questo significherà e se significherà qualche cosa. Se ci sarà un senso.

Non è possibile cercare un ordine che non esiste.


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