Da una classe dirigente mi accontenterei, da profano, che almeno ci fosse una sgangherata corrispondenza tra la parola ed il concetto che essa incarna e testimonia, come ebbe a dire il famoso domenicano: adaequatio rei et intellectus, e non che la loro realtà tecnica, così pericolosamente vicina ai problemi pratici della gente, si risolva esclusivamente in un astruso rebus senza soluzione. Non è chiaro, nella fattispecie, se gli uomini di stato ci siano interamente in quel che fanno o ci facciano per produrre, in ossequio al dogma del fare per non cambiare, una qualsivoglia concretezza fittizia. In ogni caso, è di palmare evidenza: siamo di fronte a personaggi che cercano un’identità nell’artifizio e trascurano, come formichine operose troppo prese dalla propria occupazione, quale sia l’autentico motivo che ne sprona l’azione.
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Quello che è stabile non vuole infatti consumarsi, né tantomeno spostarsi dalla propria posizione stabilita, laddove invece ogni crescita, allo stesso modo di ogni convesso decremento, portano scompiglio ed instabilità in ogni convenuta quiete. Che i secchioni dell’economia non andassero particolarmente d’accordo con la logica da cui la loro scienza dovrebbe trarre invece nutrimento, era già nell’aria da tempo. – La stabilità è indispensabile alla crescita – è, in fondo, solo un altro slogan riesumato dai manuali, un mantra che significa semplicemente: è bene lasciare tutto così com’è!
Del resto non ci si aspettavano funambolismi logici e volteggi umanitari da una classe dirigente che vuole la competizione ed al contempo pure la solidarietà; che intende coniugare la crescita dei consumi con l’armonia sociale; che flirta con la flessibilità del mercato del lavoro e contemporaneamente strizza l’occhio al posto fisso. L’uomo, da sempre, cerca la stabilità nelle fedi collettive come estremo riparo dal divenire caotico della vita, ed oggi invece la società che avrebbe finalmente dovuto porre un argine sicuro a questo “caos per tutta l’eternità”, in una sorta di posticcia nemesi, ha posto nella velocità e nel dinamismo tecnico il proprio antibiotico credo. La soluzione: viaggiare così veloci da rendere impossibile vedere il caos fuori!
In Italia, si sa, siamo la patria della creatività e dopo Galileo (esauritasi la sua precaria panacea scientista contro il malessere esistenziale) ecco la nuova medicina: il caos artificiale per oscurare il solito nemico esistenziale, ovvero il caos reale. Poiché non possiamo uscire dal caos autoprodotto, ma che tutti riconoscono come tale, non possiamo preoccuparci del caos reale, che continua ad essere bello misconosciuto, nascosto anche all'olfatto, da un crescente puzzo di santo gregge! Un mondo divenuto ormai comicamente assurdo, che vorrebbe mondarsi delle proprie fisiologiche contraddizioni nella stabilità della logica e dell’economia di mercato, che però ripresentano all’uomo ulteriori motivi di angoscia ed instabilità. Un assurdo generato, per citare Camus, tra il richiamo umano e il silenzio irragionevole del mondo, di un uomo che si fa “economico” esclusivamente per prepararsi alla somministrazione del nuovo antidoto epistemico. La cura, se possibile, è oggi persino peggiore della malattia. In un mondo schizofrenico che però si chiama ordinato, sicuro e confortevole, anche la stabilità genera ancora, come il clone contraffatto di un divenire che si proponeva di annullare, l’inquietudine della provvisorietà e dell’incerto.
Viviamo ancora nelle contraddizioni, ma pensando di averle razionalmente estirpate dal nostro mondo: credo quia absurdum!