Platone era figlio di una città che era la luce di una civiltà mai vista in passato e che sembrò realizzare il sogno di una compiuta perfezione. Nonostante le delusioni seguite al disastro della guerra del Peloponneso, la sua filosofia – non avendo ancora il conforto della Rivelazione, e quindi la consapevolezza che la compiuta realizzazione dell’uomo è concepibile solo in una prospettiva ultraterrena – costituisce ancora il massimo tentativo di conciliare pienamente la vita dell’uomo della polis con quella dell’uomo fedele alla sua coscienza, e già in cuor suo ubbidiente a un Dio unico e purificato; di conciliare pienamente le leggi della città con quelle di Dio; e allo stesso tempo, testimonia la chiara coscienza del fallimento di questo tentativo e della necessità di superare l’impasse. Come fu possibile che il perfetto cittadino Socrate fosse stato messo a morte dalla sua città dopo aver obbedito alle leggi della sua città? Ecco allora che si aprono le porte di una giustizia ultraterrena: « …se io non credessi di andare anzitutto presso altre divinità sagge e buone e presso uomini morti, migliori però che quelli di qui, sbaglierei a non rammaricarmi della morte. Ora voi ben sapete che io ho speranza di giungere presso uomini buoni – su questo non potrei essere sicuro del tutto, ma invece di giungere presso gli dèi, padroni assolutamente buoni, voi sapete bene che se c’è qualcosa su cui sarei pronto a insistere senz’altro è proprio questo. Tanto che io non mi rammarico come chi non ha questa speranza, anzi io nutro una precisa speranza che per i morti esista un qualcosa e, come anche si dice da tempo, che esso sia migliore per i buoni che non per i cattivi.» (Socrate nel “Fedone”). Giustino Martire tracciò perfino un ardito paragone tra la figura di Socrate e quella di Gesù: «Quando Socrate, secondo la vera ragione e criticamente, si è sforzato di portare alla luce queste realtà, e di allontanare gli uomini dai demoni, gli stessi demoni, attraverso uomini assoggettati al male, si adoperarono per farlo condannare a morte come ateo e empio, dicendo che lui introduceva nuove divinità; allo stesso modo operano contro di noi» (Prima Apologia per i cristiani ad Antonino il Pio). Lo stesso schema vale per l’auspicata perfezione della Città dell’Uomo: La Repubblica, dopo che i protagonisti del dialogo ammettono che il loro è un sogno, si chiude, quasi per una necessità fisiologica, con una grande visione escatologica. Io vedo nella filosofia platonica un grandioso tentativo di tenere tutto insieme e di compenetrare il divino con l’umano . Io vedo invece in Aristotele un filosofo orizzontale, che scompone, che analizza, che individua, che ordina. Mi sembra che Aristotele sia il vero inventore del linguaggio filosofico, che io non amo; mi sembra, sparandola grossa, che sostanzialmente l’aristotelismo della scolastica consista nell’adozione di questo suo linguaggio, inteso nel senso più largo del termine; e mi sembra ancora che di fatto (di qui le sue contraddizioni) Aristotele rinuncia al tentativo platonico. Più che una posizione equilibrata la sua è una posizione rinunciataria; una specie, per così dire, di moderata dissociazione tra conoscenza del divino ed etica. Se in Platone, negli stoici e perfino negli epicurei vi è un modello di perfezione da seguire, una specie di uomo divino nella sua rotonda perfezione, un uomo-Dio che prefigura il Dio fatto uomo, questo è proprio quello che manca in Aristotele.
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