Ho passato tutta la giornata a modificare impaginati e proporre innumerevoli copertine per il catalogo che sto impaginando col direttore.
Non riesco a capacitarmi di come, uno come lui, pronto a scoppiare in furibonde scenate per una quisquilia, riesca trovare la pazienza per seguire questi pazzi che, prima dicono e poi disdicono.
Ogni singola pagina è stata fatta e disfatta per almeno sette, otto volte, e il bello è che tutto questo è servito a preparare il materiale da presentare al “mezzo capo”. Poi, se tutto va bene, verrà presentato al “grande capo” per l’approvazione finale.
Non c’è che dire, proprio un bel modo di lavorare.
Ma sono tempi in cui si accetta tutto, anche di rifare la stessa pagina per dieci volte. Se non altro ho l’illusione di lavorare, di muovere le mani come se niente fosse, come se tutto fosse normale.
Ma qui non c’è niente di normale. Passata quasi una settimana, posso dire che anche l’ultimo preventivo che ho presentato è sfumato come la puzza di una scoreggia. Del giornale dell’organizzazione umanitaria non so ancora nulla, eppure la vera opera umanitaria sarebbe quella di far lavorare qualcuno che ne ha realmente bisogno, ma tant’è, non sono un povero afgano (con tutto il rispetto che nutro per i diseredati del mondo intero), e si vede che qualche nipote o figlio del cugino, o qualche cognato, avevano più necessità di me.
Lo scoglionamento è ormai al setttimo cielo, e alterno momenti di profonda tristezza ad altri in cui una rabbia nera e profonda mi sfigura l’anima.
“Tutto questo prima o poi dovrà pur finire” continuo a ripetere a me stesso senza credere più a un pensiero che, da fisso, sta assumendo i connotati della fissazione.