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Jihad in arabo significa “esercitare il massimo sforzo”, è vero. Ma dall’Europa, e dalle sue nazioni civilizzate, tutto sembra facile: si va là, si combatte, si spara, si lotta per una causa ritenuta (indubbiamente) giusta. Così si pensa. Una sorta di sfogo, per qualcuno: una svolta nella vita per altri. Ma la vita, quella quotidiana, quella vera, laggiù, è un incubo: e non si tratta solamente del contesto – certo, c’è la guerra e non è il Club Med – ma di tutta una serie di situazioni, come quelle che Daniele Raineri ha raccontato sul Foglio, grazie a documenti passati da fonti belghe. Il Belgio è uno dei paesi europei, che alle cause jihadiste, anche in passato, ha fornito piùmuhajirin – termine che indica quelli che fanno la hijra, la migrazione, in questo caso per andare a combattere. Ora combattono tra Siria e Iraq, prima tra Afghanistan e Pakistan.
Un passaggio del pezzo di Raineri è molto emblematico: «C’è un’immagine stereotipata dei muhajirin di ritorno dalla Siria come di fanatici programmati invariabilmente per uccidere. Ci sono infinite e penose gradazioni minori che arrivano fino al pentimento reale. In mezzo c’è chi rimane incastrato in un limbo indefinito: con gli amici vuole ancora apparire un veterano della guerra santa, davanti alla polizia, come Hakim, cerca di mettere distanza tra sé e quello che ha visto e fatto».
“Quell’Hakim” è Hakim Eloussaki, fratello di Houssein, il fondatore (morto) di un gruppo jihadista che si chiamava “Sharia4Belgium” (si è sciolto nel 2012), andato a combattere in Siria: ora molti dei componenti sono a processo ad Anversa. Le testimonianze dibattimentali, sono quei documenti da cui è uscito l’articolo del Foglio – che resterà, a mio avviso, un pezzo di antologia sui racconti di questa guerra al Califfato.
Hakim, sotto la pressione degli interrogatori, ha prima negato di aver ucciso persone, poi ha ammesso – alla luce di intercettazioni – che aveva “finito” un prigioniero. L’intercettazione arrivava da una telefonata avuta con la fidanzata, in cui si vantava del gesto. Alla polizia ha invece confessato di essere stato costretto: se non l’avesse fatto,i suoi compagni siriani avrebbero ucciso lui.
Hakim e i suoi erano con l’Isis nel 2012 – quello che adesso è diventato lo Stato Islamico. Hanno vissuto, abbastanza inconsapevolmente, un pezzo di storia del jihad globale: il gruppo all’interno del quale erano inglobati, “Majlis Shura Mujaheddin”, era guidato dal siriano Abu Athir al-Halabi. Majlis confluì dentro l’Isis, e fu proprio al-Halabi a fluidificare la fusione, convincendo l’attuale califfo Baghdadi ad espandere la propria attività dall’Iraq alla Siria – scelta che, come noto, provocò la rottura con al-Qaeda.
Storie di pentimento e di collaborazione come quella di Hakim – che sta confessando, pian piano – sono rare: soprattutto in questo momento, in cui l’IS ha rafforzato i controlli. I traditori vengono uccisi, chi torna e si pente, viene smascherato da video in cui si prova la sua attività in guerra: di solito, infatti, le confessioni alle autorità, si fermano al “io c’ero ma non sparavo”, cosa che comporterebbe pene molto meno severe in Europa.
Il testimone centrale del processo di Anversa, per esempio, si chiama Jejoen Bontinck: aveva vent’anni quando andò a combattere in Siria (anche lui di Sharia4Belgium): Bontinck confidò ai compagni che voleva tornare, e per questo fu imprigionato – e torturato – ad Aleppo. Nel periodo in cui fu rinchiuso, conobbe James Foley (l’americano fu il primo occidentale ad essere decapitato e filmato dall’IS) e John Cantlie (il reporter inglese rapito protagonista dei video tutorial sul “com’è fatto il Califfato”). Ebbe pure contatti con al-Maghribi, un marocchino di passaporto olandese, che è tra i massimi leader dell’IS e che ha accesso diretto al Califfo.
Jejoen Bontinck, liberato sulla promessa di contattare (per ricattare) le famiglie dei due ostaggi occidentali che erano con lui in cella, sta raccontando tutto ai magistrati di Anversa: se fosse successa adesso, la storia sarebbe finita con la sua morte prima del rientro in Belgio.
Dietro alle persone che viaggiano per andare in Iraq e Siria a combattere jihad, ci sono spesso profili molto particolari. Si pensa a storie da film, a personaggi come Osama Bin Laden, si scopre, invece, che molti mujaheddin nascondono racconti di raccapricciante miseria umana. Il terrorista che ha attaccato il parlamento di Ottawa, per esempio, era una persona instabile e isolata, entrato in contrasto anche con gli anziani della moschea che frequentava dopo la conversione (o il “ritorno”, come dice la dottrina) all’Islam, aveva pure precedenti per reati di criminalità comune. Poi il gesto estremo: un’azione da lupo solitario.
Personalità malate, vittime di auto-fascinazione, fanatici, schiantati (per rubare una definizione al direttore di IL Christian Rocca): anche chi non parte e non porta i segni della guerra. Leva del Califfo, che li manipola con un telecomando a distanza.
Chi affronta la hijra spesso resta deluso, molti sono carne da cannone, soprattutto i forestieri: pochi fanno “la carriera” di Omar al Shishani, il “ceceno” diventato uno dei massimi comandati militari del Califfo. Alcuni si adattano a quel mondo di teste tagliate, di missioni kamikaze, di ordini da eseguire in silenzio, e si integrano con lo scenario – è il caso del boia “John”, il terrorista dall’accento inglese protagonista delle decapitazioni degli occidentali, o dei discussi europei ripresi nelle esecuzioni di massa dei 18 ufficiali siriani nell’ultimo video diffuso da al-Furqan (il dipartimento media del Califfato).
Altri, invece, capiscono che la guerra non fa per loro, e la svolta di vita presa ai tempi della partenza, era nella direzione sbagliata: molti vorrebbero tornare, ma ormai non possono. Il Califfo ha stretto la cinghia: la hijra per il jihad è un disumano viaggio senza ritorno.
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