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Peppone Renzi e il Gulag per i dissidenti: se persino "PiGi CerchioBattista" non capisce

Creato il 15 giugno 2014 da Tafanus

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El Gordo

Insofferenti e dissidenti (Fonte: Pierluigi Battista - Corriere.it)
Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni.

Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio.
È molto verosimile che i senatori del Pd accantonati fossero mossi da una forma di conservatorismo culturale che in questi anni ha ostacolato qualsiasi riforma impantanandola in un vortice di veti e di inconcludenza. Ma se Renzi ha il merito di aver impresso una brusca accelerazione alle riforme istituzionali, facendole uscire dalla palude degli eterni rinvii, non si può neanche pensare che su un tema così delicato e costituzionalmente rilevante qualunque discussione sia equiparabile a un «sabotaggio», qualunque dissenso a un «tradimento», qualunque perplessità a un «veto». Bisogna far presto, e Renzi ha ragione a essere insofferente di freni e dilazioni che in passato hanno fatto inabissare ogni riforma. Ma non ci si può «impiccare a una data», l’espressione è dello stesso presidente del Consiglio, e dunque un mese in più per fare una riforma del Senato non raffazzonata e rabberciata non è la fine del mondo: la campagna elettorale si è conclusa in modo trionfale, non c’è più una data tagliola oltre la quale l’immagine riformista del governo e del Parlamento possa risultare intaccata.
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito.

Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.
Pierluigi Battista

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