Passaggio di consegne tra il vecchio Primo ministro, Enrico Letta, e il nuovo, Matteo Renzi, con la cerimonia della campanella del Presidente del Consiglio che cambia “padrone”. Se si osservano le istantanee delle vecchie cerimonie, da Prodi a oggi, notiamo subito la scarsa empatia che ha caratterizzato l’ultima. Enrico Letta, statua di ghiaccio, ha evitato di incontrare lo sguardo di Renzi fino alla fine, soltanto una sfuggente stretta di mano e l’uscita frettolosa di scena. Siamo umani e, nonostante le doti diplomatiche dei politici, Enrico Letta non ha nascosto il suo risentimento nei confronti di chi lo ha scalzato, il suo viso tirato e la postura sono segni evidenti di un mal celato livore. Il tutto è durato dieci secondi, una fretta fin troppo eloquente… Alessandro Sala sul Corriere della Sera ha sintetizzato magistralmente quanto accaduto: Nello stesso tempo che serve a Bolt per vincere un oro nei 100 metri, Letta ha invece liquidato la formalità e voltato pagina su un’esperienza in cui aveva messo grande impegno e partecipazione, quei 300 giorni «ognuno come se fosse l’ultimo» secondo la sua stessa definizione, ma conclusa nel peggiore dei modi, con una sfiducia non parlamentare ma «domestica», tutta consumata all’interno del Pd. E orchestrata dallo stesso Renzi, fresco leader del partito che Letta ha contribuito a fondare, che nello spazio di pochi giorni è passato da #enricostaisereno a quel voto capestro in direzione per una «staffetta» che fino a quel momento era sempre stata negata anche solo come ipotesi [1].
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