Ognuno di noi dovrebbe essere ciò che è in mezzo agli altri, anche se diversi. (G. Louganis)
Quando ero “giovane” (per intenderci, in quella fase di una decina d’anni fa in cui hai dai 16 ai 22 anni), ero circondata da una ventina di amici: una ventina di persone con la fortuna di essere cresciute insieme, di ricordarsi la prima fidanzatina dell’uno e dell’altro, le prime ubriacature, le prime gite, scampagnate, serate a ballare fino a tardi; i primi viaggi all’estero, i primi e i secondi baci, i genitori dell’uno e dell’altro che si conoscono e si mandano i saluti; le prime lacrime, i primi outing.
foto-rielaborazione di L. Battaglia
Ricordo ancora quando il più piccolo e precoce di noi, che aveva appena 14 anni, decise di dire a tutti che era gay, che avrebbe voluto essere una donna, che amava ballare e che desiderava diventare una ballerina di danza classica e scoparsi un bell’uomo, giacché “la figa mi fa schifo!”, disse.
Fu solo l’inizio; d’improvviso, alcuni divennero misteriosamente muti, sparirono per mesi, accamparono scuse per non uscire più insieme. Dopo circa un annetto, divenne ufficiale che l’omosessuale del gruppo non era solo uno: erano ben sei! Sei persone sofferenti perché “diverse” da te che a un certo punto sparivano, tornavano, ti chiamavano in un angolo e – ridendo o piangendo – ti dicevano la verità, ti raccontavano i loro sogni e le loro vergogne, ti offrivano i loro silenzi.
Ma eravamo amici e la prendemmo tutti bene: passavamo i venerdì e il sabato sera al Rise up e all’Exit, accettavamo qualsiasi amico o nuovo fidanzatino come uno di noi (anche se ormai il gruppo era fatto più di gay che di etero!) ed eravamo naturalmente gay friendly: adoravamo mister Sinclair, le canzoncine di Madonna e il trash-style molto più della house alla moda di 8-10 anni fa.
Purtroppo, “essere amici” non era sufficiente, e a un certo punto lo vedevi, anche se non volevi, che molti di “loro” si annoiavano con te, che ti reputavano “troppo poco” diverso e stimolante per continuare a passare le serate insieme… serate in cui non si batteva chiodo, e invece c’era bisogno di certi locali… di conoscere gente… di sentirsi osservato e di osservare, anche se questo voleva dire cassare il passato, non avere più tempo per quelli che fino ad ora erano stati “i tuoi amici”.
Perché “loro” avevano bisogno come l’aria di omologhi: quegli omologhi che – soprattutto quando stai cominciando a capire chi sei – ti offrono spazi liberi per essere te stesso, una forte identità omosessuale di gruppo che fortifica la tua identità individuale, luoghi comuni che conferiscono senso di appartenenza, che offrono sostegno, che rafforzano l’autostima e fanno sentire più forti perché non si è più “i soli“.
E così, sparirono a poco a poco, rinchiusi nel loro mondo omosessuale, in un universo volutamente “altro“, in una galassia volutamente “altra“: pur di sentirsi parte di un qualcosa che li riconosceva come “esistenti” e “meritevoli anche se omosessuali”, i miei amici rinunciarono a frequentare un gruppo “misto”; loro lì e noi qui, ognuno nel suo “ghetto“ personale, modellato sull’identità sessuale. Adios.
Possiamo dare la colpa alla società gretta e ottusa o alla loro stessa mancanza di coraggio.
Non importa.
Importa invece capire che, forse, l’auto-ghettizzazione di cui ho sempre accusato quelli che erano i miei amici era l’unico modo che possedevano – immaturo, ma l’unico forse possibile per quei tempi e per una città come Palermo – per sentirsi più orgogliosi di loro stessi, per confrontarsi con i loro “simili” e da questo confronto trarre la forza per poi affrontare il resto del mondo. Per loro, era un’auto-emarginazione necessaria, utile a formare una sorta di “coscienza di classe”, a lottare quotidianamente con l’intolleranza intra ed extra psichica, a difendersi dagli altri e da se stessi. …Una necessità, ma anche una distorsione dell’”esser-ci” che in passato l’omosessuale viveva come urgente e imprescindibile, come se avesse a che fare con il suo stesso concetto di “esistenza”. Una distorsione talmente pressante da far dimenticare che essere neri, ebrei, musulmani, cristiani, omosessuali non corrisponde ad avere una precisa identità; che prima di essere gay, etero, lesbiche… siamo esseri umani, che siamo simili e tutti diversi insieme e che l’essere gay o etero è solo una parte del nostro modo di “essere” (M. Buzzi).
Perché per “essere“ non ci si può limitare a rintanati in isole felici come i forum, le chat, i locali gay o il gay village; “avere un’identità” significa essere riconoscibili per ciò che siamo, significa lottare, significa dissentire, significa, soprattutto non nascondersi. Significa prima di tutto coerenza con se stessi, significa essere onesti, lottare per ciò in cui si crede. Questo significa ESISTERE.
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Non so a quale prezzo, ma i miei vecchi amici sono sopravvissuti, chi a Palermo, chi a Roma o al Nord; c’è anche chi ha già realizzato i suoi sogni ed è uno dei primi ballerini del teatro Massimo.
Purtroppo, non ho visto nessuno di loro al Pride l’anno scorso.
Mi è dispiaciuto, perché vorrei condividere con loro l’orgoglio della differenza tra ieri e oggi: oggi, ArciGay, Pride, associazioni e gente di ogni tipo sono vive a Palermo e combattono l’indifferenza degli eterosessuali e la auto/etero-ghettizazione del tipico gay che si accontenta del cellularino, del localino, della pomiciatina, dello shoppinghino, del forummino… sbattendosene dell’altro e dell’impegno civile che lo riguarda direttamente.
Oggi abbiamo la fortuna di vivere in una città che lavora affinché essere se stessi non sia più così costoso, e difficile. Affinché un locale gay non sia un locale per ghettizzarsi, ma un luogo aperto a tutti che offre un ambiente più vicino alla comunità gay. Affinché l’auto-ghettizzazione di cui ho sempre accusato quelli che erano i miei amici non sia più l’unico modo per questa città di essere liberamente se stessi, di sentirsi meno diversi e di costruirsi la propria identità psicosociale.
Questa è l’importanza del pride; di esser-ci, al pride; di esistere prima-dopo-durante il pride, insieme.