Per farla finita con le parole
di Igor Vazzaz
Parole
Le parole sono rischiose, vischiose. Scivolano. Slittano.
E le fraintendiamo.
Le parole sono pietre, Carlo Levi.
Parole opposte alla musica. Alternative alla musica. Di contrappunto alla musica.
Sartre distingueva letteratura e musica: la prima si fonda sull’uso di significanti, elementi del discorso cui, in un sistema linguistico, si legano dei significati; la seconda, la musica, procede invece per evocazione, suggerisce, ma non indica.
Con le parole si può descrivere, con la musica suggerire; non si ha a che fare con significanti “precisi” (posto che, in linguistica, i significanti, ossia le parole, sono soggetti comunque a mutare di senso): si può evocare un sentimento, un’atmosfera, ma la musica non può descrivere, proprio perché le note non sono significanti legati a significati più o meno precisi.
Le parole cambiano di senso.
Ingannano.
Con le parole si persuade.
Le parole si cavalcano: libertà, democrazia, giustizia.
Socialismo. Cristo. Carità. Grazia.
Nazional-socialismo. Comunismo.
Popolo.
Platone avvertiva, più di duemila anni fa, quanto le parole, specie quelle scritte, siano infide: la scrittura, secondo il racconto del re alto egizio Thamus che incontra il dio Theuth avrebbe portato non la sapienza, bensì una conoscenza senza insegnamento che a lungo andare avrebbe creato soltanto portatori di opinioni e non sapienti. Un paradosso, ovviamente, dato che tutto quello che sappiamo di Platone, e il corpus delle sue opere che sono l’unica tangibile sua eredità filosofica, è giunto a noi in forma scritta. Il campione, il fautore di una sapienza da trasmettere solo per via orale che resta storicamente imprigionato nei e dai suoi scritti. Un paradosso, appunto, che ha a che vedere con le parole.
Che cambiano nel tempo.
Che possono essere interpretate, piegate, equivocate.
Che esistono forse solo per essere equivocate.
Eppure non si può fare a meno delle parole.
Perché noi pensiamo attraverso le parole e, non a caso, pensando ci inganniamo, ci mentiamo, costruiamo impianti autoconsolatori, autogiustificativi, autocondannatori.
Schiavi delle parole.
Non le usiamo. Ne siamo usati.
Non parliamo. Siamo parlati.
Quasi sempre senza neppure accorgercene.
Aderiamo a modelli retorici precostituiti.
Parliamo per frasi fatte.
Siamo frasi fatte.
Siamo fatti. Frasi fatte. Frasi fritte.
Siamo fritti.
Dovremmo liberarci delle parole.
Del pensiero. Del senso. Del significato e del significante.
Dovremmo liberarci della liberazione stessa.
Dovremmo liberarci dalla dittatura peggiore, quella dell’Io, quel darsi per scontati, darsi per certi, darsi come necessari, come sensati.
Liberarci delle parole, dalle parole.
Per questo mi è impossibile “difendere” una parola, portarmela via.
Perché non voglio andare da nessuna parte. Non lo so.
Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, diceva un altro che di parole se ne intendeva, pur nella sua malacoscienza.
L’unica salvezza, se di salvezza si può parlare, è la possibilità di sfuggire alle maglie strette della retorica, con l’illuminazione, la sorpresa, il guizzo che è la risata.
Non l’umorismo. Non la comicità, il comico, lo spiritoso, il grottesco (per quanto il grottesco sia il più alto livello tra questi).
Il riso.
Quell’attimo di abisso che è il riso: squasso dei sensi, anarchia organica, il corpo in singulti, come in un attacco epilettico, un corpo in rivolta che abdica a sé stesso.
Il riso, il mistero profondo, quell’attimo di follia nera che ci distingue, quello sì, dagli animali.
Mi chiedete una parola, esercizio volitivo, ottimista, costruttivo.
A me, involitivo, pessimista e distruttivo.
E ho pensato a un caro amico, Marco Vignolo Gargini, che purtroppo non è qua stasera, a un episodio cui non ho assistito ma è come se fossi stato presente.
Marco, studioso di Wilde, wildiano esso stesso.
Esterno giorno, fine anni Ottanta. Porta San Pietro a Vapore, di ritorno dalla stazione ferroviaria. Marco, in giacca nera, orchidea nel taschino (mi ha sempre detto di non averla, ma io la vedo, sono sicuro che ci fosse), passo fiero e tendenzialmente sprezzante. Una tapinissima coppia di Testimoni di Geova prova a pararsi sulla strada del nostro, tentando di bloccarne l’incedere chiedendo, a mo’ di elemosina, “Scusi… una parola…”
Senza neppure fermarsi li trafigge: “PAPPAFICO”.
Gioco partita incontro, per un mirabile esempio di sintesi futurista fuori tempo massimo.
Ed è per questo, per complicare ancor di più le cose, e concludere, vi lascio con una fanfola, un gioco (che non è uno scherzo), in cui le parole sono solo suono, leggere, evocano e non dicono, rinunciano a dire.
Perché non c’è niente da dire. È una fanfola famosa, di Fosco Maraini, ma val la pena riportarla.
Il Lonfo
Il Lonfo non vaterca né gluisce
e molto raramente barigatta,
ma quando soffia il bego a bisce bisce,
sdilenca un poco e gnagio s’archipatta.
È frusco il Lonfo! È pieno di lupigna
arrafferia malversa e sofolenta!
Se cionfi ti sbiduglia e ti arrupigna
se lugri ti botalla e ti criventa.
Eppure il vecchio Lonfo ammargelluto
che bete e zugghia e fonca nei trombazzi
fa legica busia, fa gisbuto;
e quasi quasi in segno di sberdazzi
gli affarferesti un gniffo. Ma lui, zuto
t’ alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.
(Fosco Maraini)
Il resto, come dice Leo Chiosso per bocca di Mina, non è silenzio, ma parole, parole, parole.