« Quelli che leggono i libri vanno da quelli che non leggono i libri, i poveracci, e gli dicono: Qui ci vuole un cambiamento! e la povera gente fa il cambiamento. E poi i più furbi di quelli che leggono i libri si siedono dietro un tavolo e parlano, parlano e mangiano, parlano e mangiano; e intanto che fine ha fatto la povera gente? Tutti morti! Ecco la tua rivoluzione! Per favore, non parlarmi più di rivoluzioni! »
Queste parole sono tratte dal celebre film di Sergio Leone “Giù la testa”. Si riferiscono al dialogo tra Juan Miranda, il peone messicano, e a John Mellory, dinamitardo irlandese socio di Juan. Ieri sera ero in divano. Avrò rivisto questo capolavoro centinaia di volte. Ma ieri sera c’ era qualcosa di diverso. Quel qualcosa sta nelle parole che ho evidenziato all’ inizio e che sono tutte incentrate sulla rivoluzione. Ne sento tanto parlare in giro. Ma chi di noi sa veramente cos’ è una rivoluzione? Cos’ è un cambiamento? In realtà, le rivoluzioni non sono nulla di piacevole. Le rivoluzioni “serie” si fanno con il sangue, con le privazioni, con la sofferenza, con il sudore. Insomma, quanto più di sacrificato ci possa essere per la condizione umana. Una sofferenza, inoltre, che non assicura risultati sicuri. Credo che questo basti a spiegare perché l’ Italia di oggi non può in alcun modo produrre nessuna rivoluzione. Premesso che bisogna togliersi dalla testa che esistano rivoluzioni pacifiche, quelle senza costi “sociali” tanto per intenderci, l’ Italia moderna è un paese sazio, senza fame di alcunché. Un paese che si identifica ancora in un capitalismo parassitario e senza idee, senza rispetto per l’ individuo, per l’ ambiente. E’ un’ Italia in cui si fa a meno dell’ essenziale pur di mantenere i propri eccessi, i propri vizi. Siamo diventati un popolo di soli consumatori, di utenti dequalificati e privi di coscienza civile e politica. In fondo, siamo tornati ad essere quello che siamo sempre stati: voraci e sfiduciati, sazi e affamati, opportunisti ed eroi solo nelle disgrazie, polemici e solidali quando è troppo tardi. Certo, ogni popolo ha le sue contraddizioni. Nessuno è perfetto. Ma noi non ce ne preoccupiamo. Ce ne freghiamo illudendoci che, prima o poi, il domani verrà, comunque. L’ Italia non è mai stata terra di rivoluzioni. L’ Italia è stata la terra patria di rivoluzionari, di idee, movimenti politici, ma mai di rivoluzioni autonome, spontanee. Questo perché la storia non è una semplice successione di fatti. La storia va pensata un pò come la genetica. Come quest’ ultima, essa forma e trasmette i caratteri di ogni individuo, in questo caso di un popolo. Il gene dominante dello spirito italico è la separazione più netta tra il ceto intellettuale ( che, peraltro, in Italia è sempre più esiguo e impercettibile) e le masse popolari. Quest’ ultime, si sa, sono legate ai bisogni del ventre, come sosteneva Vincenzo Cuoco. Il popolo se non è spinto dal bisogno non si muove. Eppure viene da chiedersi: oggi il popolo italiano, le sue classi sociali, schiacciate dalla recessione, dai debiti, dai salari da fame, non ha motivi validi per ribellarsi, per dare vita a una rivoluzione? Ma essa non avviene perché da un lato, le poche guide intellettuali rimaste non sanno parlare alla massa e non ne conoscono le reali esigenze ( da sempre il principale difetto degli intellettuali in Italia); dall’ altro, l’ elemento popolare ha sviluppato, in conseguenza della propria impotenza, i suoi “anticorpi”: la rassegnazione, la passività, il qualunquismo. Fattori ai quali bisogna stare attenti visto il crescente “successo” assunto da movimenti in cui l’ anti politica e il dissenso verso le istituzioni appaiono essere l’ unica nota di rilievo (vedi Beppe Grillo ad esempio). Ritengo, dunque, che “accontentarsi” di una politica efficiente e di un welfare rigenerato da riforme ( cose peraltro attuabili non gratuitamente né in termini di costi sociali e finanziari) sia le più grande rivoluzione che il nostro paese possa mettere in atto. Per quanto riguarda il resto è meglio lasciar perdere.