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Per Gianfranco Palmery

Creato il 22 agosto 2013 da Viadellebelledonne
Per Gianfranco Palmery

Fotografia di Davide Simiele

Giorni fa se n’è andato in silenzio il poeta Gianfranco Palmery.
Lontano, per temperamento e scelta, dalle conventicole e convenzioni letterarie, dai clamori e dalle mode; nel silenzio, appunto, e in un riserbo orgogliosamente perseguito, si sono dispiegati i frutti di una sua appassionata attività poetica pluridecennale, dove la parola e il pensiero si affidano a una versificazione di straordinaria intensità e di esatta, musicale tensione lirica;

a cominciare dalla prima breve raccolta, Mitologie, del 1981, per proseguire con L’opera della vita, Il versipelle, Sonetti domiciliari, Giardino di delizie e altre vanità, Medusa, L’io non esiste, In quattro, fino agli ultimi due libri, pubblicati da Passigli, Compassioni della mente (2011) e Corpo di scena (2013), intervallati da altra breve, bellissima, raccolta Amarezze – Madrigali e altre maniere amare (2012).
Cognizione acuminata di sé e della propria dolorosa condizione esistenziale, di una realtà umana dominata dalla stupidità e da un inarrestabile cupio dissolvi, aspersi di grani di ironia e autoironia e, per ultimo, esplorazione del mistero e della grazia felina – i versi sulla sua famosa “gattità”, raccolti in due titoli: Gatti e prodigi e Profilo di gatta, meritano, assieme agli altri, ripetute godibili letture e meditazioni –; tutto questo costituisce l’ossatura tematica e timbrica dell’opera di Palmery.
Sulla poesia, sull’amore (verrebbe da dire: sull’ossessione amorosa) per la poesia ruotano le altre due fondamentali attività del poeta: di raffinato traduttore (Keats, Shelley, Corbière, Stéfan, alcuni poeti tradotti) e editore. Le opere pubblicate dalla sua casa editrice “Il Labirinto” si segnalano, oltre che per l’accuratezza e l’estrema eleganza grafica, per la qualità letteraria. Né va dimenticato l’impegno da lui profuso nella direzione della rivista “Arsenale” che, negli anni ottanta, ha costituito un prezioso punto di convergenza e confronto tra segno verbale e segno grafico. Anche qui, coadiuvato da una redazione particolarmente laboriosa e valida, Palmery ha dato impulso a quell’“esercizio di accrescimento della coscienza” che, secondo Harold Bloom, risiede nei percorsi e nella fruizione della vera grande poesia.

Domenico Vuoto

Gianfranco Palmery
Alla fine
(cinque poesie da Corpo di scena, Passigli, 2013)

Alla fine
Ancora lentamente o sul finale
correndo alla fine mi raggiungerò:
in pace e pari vecchio e adolescente
l’un l’altro nell’unico – morente:

così la luna fa la notte e l’alba
fulgente nel suo ufficio e infine pallida
tradita dall’azzurro che rischiara
lascia a servizio la stella vicaria
Madrigali dell’alba
faccio tomba del giorno – morte in vita:
la notte viene quando è già sparita
I

Ecco le puntuali, azzurro-pallide
cinque del mattino, la luce
delle cinque del mattino che passeri
e merli traducono nei soliti
solfeggi uccelleschi, gridando
la loro disperazione per l’arrivo
d’un altro giorno, o forse fanno
solo gl’ingenui araldi della vita:
tu abbassa la serranda, tira le tende
e che venga la notte finalmente!
II

È la luce che annuncia la mia notte
con i noti cantori che orchestrano
tutte le sante cinque del mattino
ciù-ciù, cra-cra il loro concertino:
questo strenuo teatro di finestra
l’intermezzo obbligato che vorrei
saltare – da buio
a buio scivolando alle sei
calate le serrande contro il mondo
per trovare, forzato notturno,
finalmente il mio sonno – e che fuori
passeri e merli aprano pure il turno
dei forzati di giorno!

Corpo di scena
La mia uscita di scena è già scritta,
è scritta sul mio corpo, il noto dramma
steso nel millenovecentoquaranta,
una prima stesura poi rivista
aggiustata ritoccata negli anni:
il corpo è il testo e il teatro e gli attori
hanno messo in azione fami e affanni:
un brulichio vorace tra due fori,
veleni in vene e arterie – al gran finale
farò da spettatore: gli assassini
sono da tempo all’opera: il mio male
troverà la sua fine, e niente fini
edificanti, catarsi, agnizione –
ciò che è stato sarà: divorazione

La gloria ferita

Ode per John Keats
«Se dovessi morire – rifletteva
nella lettera a Fanny – non avrei
lasciato nessuna opera immortale
dietro di me… se avessi avuto tempo
sarei riuscito a farmi ricordare».
Eppure l’anno prima aveva scritto
a George «penso che sarò tra i poeti
inglesi dopo la mia morte». Ecco
cos’è disperare e sapere: un conflitto

tra umore e giudizio, un perenne allarme
e altalenare dell’idea di sé:
meritare memoria e dubitarne –
se la mente è ormai lesa, poiché
il silenzio e i veleni del mondo
corrompono l’umore e sanno come
alterare il giudizio, come spegnere
sete d’amore e fama con la feccia
dell’odio. «Qui giace uno il cui nome

è scritto nell’acqua» – tutto secondo
il fatale copione Morte in vita –,
e quanto duole l’implacata epigrafe
– ah la buia sconfitta, il fallimento! –
da una voce indelebile smentita
col suo disincarnato incanto nei secoli.
Quella fragile stele al Campo Cestio
che ancora dice la tua pena e intreccia
durata e sparizione è un monumento

ma così in vano alla Gloria Ferita.

Aria del Pindo

o Finale
La linea con il Pindo è disturbata
da sibili, fruscii… la voce arriva
a fatica o per niente – alla chiamata
a volte non risponde anima viva

Non c’e più linea con il Pindo: è stata
oh quanti anni notte e giorno attiva –
in questi cavi fa la sua avanzata
ora il silenzio: presenza annunciata

dall’eco della voce che moriva



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