“E poi c’è sempre qualcosa da limare.”
Scrive proprio così newwhitebear in un commento al mio post “Come riconosci una parola difficile?”, e sembra una frase buttata lì, ma in realtà si apre un territorio sconfinato. Limare: una delle tante fasi della scrittura, e in effetti c’è da perdere la testa, vero? Prima c’è la scrittura, la riscrittura, l’amputazione. Ma una domanda alla fine sorge spontanea, vale a dire: limare va bene. Riscrivere d’accordo. Migliorare, e pure questo va bene. Esiste però un sistema per capire quando bisogna smettere di mettere le mani nella storia, perché altrimenti si rischia di guastare tutto?
E lo chiedi a me?
L’idea e la forma
Viene il momento che ti permette di capire al volo se è tempo di smettere: ma non è vero. È solo un’illusione. Diciamo che per un’ora al massimo, una giornata non ci pensiamo più. Poi ci pensi meglio ed ecco che d’un tratto “quel pezzo lì”, forse…
Alcuni autori smettevano di rifare, di aggiungere o togliere perché di fatto erano minacciati dagli editori.
Altri, consegnavano l’opera perché le bollette si accumulavano, oppure erano i debiti. E magari dopo anni la riprendevano e la modificavano ancora.
Ogni anno io ho una bizzarra abitudine. Vale a dire prendo “Il sosia” di Dostoevskij (sì, un autore che cito di rado su questo blog, vero?), e me lo rileggo. Per me è una delle opere più riuscite di Fedor. Lui non ne era affatto convinto. Lo pubblica, certo, ma dopo alcuni anni la riprende, cambia qualcosa ma alla fine si deve rassegnare: è un’occasione sprecata.
Cosa diavolo volesse dire, è quindi un mistero. O meglio, no. L’idea era ottima, dice Dostoevskij; ma “la forma” non gli riuscì affatto. Ah! Ecco svelato l’arcano! Forse…
Già. Le idee. Quanti di noi hanno sentito gente che diceva:
“Eh! Sono pieno di idee! Avessi del tempo, sai che romanzi scriverei!”
Non ti serve solo il tempo
Ho qualche dubbio su questo genere di affermazioni abbastanza ovvie. Quello che però mi interessa adesso affrontare (senza alcuna pretesa di completezza, per ovvie ragioni), è proprio la “forma” che si dovrebbe dare a una storia.
Il punto è che quando raccontiamo a voce una storia, la forma non c’è. O forse sì: siamo noi. Il tono della voce, i gesti, la mimica del viso… tutto fa brodo come si dice, tutto concorre a rendere efficace la nostra narrazione. Quella è in un certo senso la forma, ed è per colpa sua che poi ci mettiamo a scrivere. Perché qualcuno ci fa notare che potremmo proprio scrivere. Il che è bizzarro: il consiglio dovrebbe essere, semmai, di fare teatro.
Niente affatto: devi scrivere. Forse perché è più “semplice”?
Forse perché il teatro pretende studio, applicazione, impegno, mentre per la scrittura basta un programma come Word, o al massimo LibreOffice? Credo di sì, è questo che la gente crede.
Quindi anche la scrittura ha bisogno di una forma, proprio perché non ne ha una.