Abbiamo già parlato dell’ultimo libro del filosofo intollerante Paolo Flores D’arcais, direttore di “Micromega”, intitolato “La democrazia ha bisogno di Dio? Falso!” (Laterza 2013). In esso l’autore sostiene che «va negato radicalmente e in modo sistematico ogni ruolo pubblico delle religioni nella democrazia, perché qualsiasi ruolo pubblico minaccia e mette a repentaglio elementi essenziali del sistema democratico».
Solo gli atei possono partecipare alla vita pubblica perché «la democrazia è atea, imprescindibilmente», spiega Flores D’arcais. Il credente, se vuole parteciparvi, deve accettare l’«esilio dorato nella sfera privata» di Dio. L’autore ha l’obiettivo dichiarato di confutare la posizione del celebre filosofo tedesco Jürgen Habermas, secondo il quale invece la democrazia ha bisogno di un presupposto religioso. Tuttavia a leggere le parole di Salvatore Veca, filosofo, docente universitario e vicedirettore dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia, sembra che l’intento non sia affatto riuscito.
Alla domanda su chi sceglie tra chi apprezza il ruolo delle religioni nello spazio pubblico, come Jürgen Habermas, e chi invece identifica la democrazia con l’ateismo, come Paolo Flores d’Arcais, il prof. Veca è chiaro: «Se per spazio pubblico s’intende l’agorà, un contesto sociale dove si parteggia, si cerca di convertire gli altri, si misurano proposte alternative, Habermas ha ragione. Qui le fedi hanno piena cittadinanza: ciascuno deve essere preso sul serio e non si deve chiedere a nessuno di revocare le proprie lealtà. La libertà democratica del resto nasce quando, dopo la tragedia delle guerre di religione, a ciascuno viene riconosciuto il diritto di adorare Dio come preferisce. Ma ciò comporta appunto la laicità dello Stato, il divieto di usare il potere coercitivo per favorire un singolo credo».
Salvatore Veca ha appena pubblicato il libro “Un’idea di laicità” (il Mulino 2013) ed intervistato da “Avvenire” ha spiegato: «Al contrario di quanto si pensa solitamente la libertà religiosa non deriva dall’insieme dei diritti politici, ma li genera e li fonda, per tutta una serie di ragioni storiche e concettuali». Le varie religioni possono fermarsi all’indifferenza reciproca, oppure arrivare all’«atteggiamento che, invece, Francesco sta testimoniando con le sue parole e con i suoi gesti: non l’indifferenza, ma l’attenzione, una curiosità verso l’altro che diventa apertura, passione, disponibilità a imparare. Sempre nel contesto della laicità, si badi bene, e senza mai venir meno alle proprie credenze».
«La laicità», ha proseguito il filosofo, «intesa nel suo significato più autentico, appartiene al cristianesimo in modo irrinunciabile e costitutivo. Per rendersene conto basta ascoltare l’esperienza di tanti parroci, di tanti sacerdoti che stanno vicini alle persone nei loro drammi e nei loro bisogni più profondi. È l’esempio dato da Francesco, appunto: non esporre agli altri la dimostrazione delle ragioni per cui sarebbe legittimo o sensato credere, ma rendere evidente che c’è una vita spesa e vissuta, in concreto, sulle ragioni della fede». «L’insistenza di papa Francesco sulla verità», ha concluso, «vissuta come relazione, e non imposta come astrazione, conduce verso questo orizzonte di serietà, oltre che di precisione concettuale. Ecco, esattamente questo è lo stile di Francesco, lo stile della laicità»
La redazione