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Perché Flannery O’Connor aveva ragione

Da Marcofre

copertina sola a presidiare la fortezza

Credo che ci siano degli argomenti (o meglio: delle tesi; degli… inviti), di cui non ci si debba affatto preoccupare, se si decide di raccontare delle storie.
Per esempio la scrittrice Flannery O’Connor rivendicava il diritto (direi quasi il dovere), di star ben distante dall’invito di scrivere storie positive.

Ottimismo! Gioia!

Gli Stati Uniti allora erano usciti vittoriosi dalla Seconda Guerra Mondiale. Si era aperto uno sconfinato panorama di opportunità. Il nucleare avrebbe risolto tutti i problemi (a quei tempi era visto con enorme simpatia e speranza). Il modello di vita americano avrebbe portato benessere, gioia e ottimismo in tutto il mondo libero (e quello non libero, sarebbe stato liberato in un modo o nell’altro).
Eppure.
Eppure certi autori scrivevano storie tristi. Di zoticoni poveri, ubriaconi, depressi. Di poveri. E che diavolo! Basta con questa lagna. Un vero scrittore americano avrebbe dovuto al contrario scrivere del successo che l’America stava riscuotendo ovunque. Doveva celebrare le cose belle che faceva, che avrebbe fatto.
Flannery O’Connor a tutto questo replicava: “No, grazie”. E non per spirito ribelle. Al contrario.


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