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Perché il voto in Groenlandia interessava a mezzo mondo

Creato il 12 dicembre 2014 da Luca Troiano @LucaTroianoGPM

Mai prima d’ora le elezioni in una comunità così piccola – 57.000 abitanti – avevano attirato un’attenzione così grande. In Groenlandia il partito socialdemocratico al governo ha vinto le elezioni, ma di stretta misura. Ora il nuovo premier Kim Nielsen dovrà cercare una mediazione con le altre forze politiche. In ballo c’è lo sfruttamento delle risorse sottostanti ai ghiacci non più eterni dell’isola più grande del mondo.

Siumut, vittoria a metà

Il voto anticipato di venerdì 29 novembre ha visto la vittoria del Siumut, partito socialdemocratico al governo, con il 34,6%, che ha superato di un solo punto l’Inuit Ataqatigiit, seconda con il 33,5%. Rispetto alle precedenti elezioni del 2013, il Siumut ha perso ben 8 punti percentuali. La nuova premier sarà Kim Kilesen, che ha avuto la meglio sulla grande favorita Sara Olsvig, dell’Inuit Atagatigiit. Per governare avrà bisogno di formare un esecutivo di coalizione.

Il voto anticipato è stato provocato dallo scandalo che ha investito l’ex premier Aleqa Hammond, prima donna a capo del governo, sempre del partito Siumut, accusata di usare fondi pubblici per pagare biglietti aerei ai familiari. La Hammond aveva trionfato alle elezioni del marzo 2013 cavalcando un’ondata nazionalistica che prendeva di mira il governo uscente per non aver tutelato a sufficienza gli interessi dell’isola nei rapporti con le compagnie estrattive straniere.

Lo sfruttamento delle grandi ricchezze naturali è infatti un tema ricorrente politica groenlandese. Con lo scioglimento dei ghiacci, si apre la possibilità di attrarre gli investimenti stranieri per l’estrazione delle risorse finora nascoste sotto il permafrost.

Terre rare, il tesoro sotto i ghiacchi

Con il termine “terre rare”, solitamente abbreviate in REE (Rare Earth Elements), ci si riferisce ad un gruppo di 17 elementi chimici – la serie dei lantanoidi, che presentano un numero atomico da 57 a 71, più scandio ed ittrio – indispensabili per produrre oggetti high-tech, dagli schermi televisivi alle auto ibride, dalle fibre ottiche ai pannelli fotovoltaici. Un gruppo sempre più folto di analisti teme che, nei prossimi decenni le risorse non rinnovabili come le terre rare, ma anche i minerari più comuni come ferro e rame, potrebbero essere sempre più scarse e costose. I mercati, però, potrebbero non avere la capacità sufficiente a soddisfare tale domanda.

Da alcuni anni è in corso una vera e propria “guerra commerciale” per assicurarsi l’accesso a questi preziosi elementi. Finora il monopolio è stato appannaggio della Cina, con circa il 97% delle estrazioni a livello globale. La decisione da parte di Pechino nel periodo 2010-2011 di ridurne le quote di esportazione ha creato uno sconvolgimento nei mercati internazionali, con i prezzi che hanno registrato aumenti variabili dal 300% al 4.000%. Ciò ha indotto governi ed industrie a promuovere una ristrutturazione del mercato globale delle REE attraverso politiche di economizzazione, ma al tempo stesso ha rafforzato l’esigenza di cercare nuovi giacimenti da sfruttare.

Qui entra in gioco la Groelandia. Un’analisi condotta dall’azienda australiana Greenland Minerals and Energy afferma che nel sud dell’isola esisterebbero riserve minerarie immense pari ad oltre il 9% dei giacimenti mondiali, dai quali sarebbe possibile estrarre fino a 40.000 tonnellate annue di materiali. Sufficienti per togliere a Pechino la supremazia sul mercato delle REE. Sotto il ghiaccio e le rocce dell’Ilimaussaq Intrustion, nel fiordo di Kangerdluarssuk, ci sono più di duecento diversi minerali e un certo numero di essi si trovano solo in questa zona. Qui si trova il giacimento di Kvanejeld, uno dei depoisiti d’uranio tra i più grandi del mondo, una miniera che contiene anche fluoro, torio e terre rare.

Al via la caccia al tesoro

La società che trarrà giovamento da questo prolifico sito minerario è l’australiana Greenland Minerals, le cui azioni sono salite oltre il 75% nel solo giorno (10 settembre 2010) in cui il governo di Nuuk ha annunciato l’intenzione di allentare le limitazioni sull’estrazione di uranio. Il 24 ottobre 2013 il parlamento ha approvato con 15 voti a favore contro 14 una mozione che, di fatto, ha abrogato il precedente divieto di estrazione di materiali radioattivi dal territorio, deciso dalla Danimarca nel 1988.

Un’altra grossa concessione, di durata trentennale, è stata affidata alla società britannica (in realtà cinese) London Mining per un progetto denominato “Isua”, dal nome della località prescelta che si trova 150 chilometri da Nuuk, dedicato all’estrazione di minerali di ferro. Il relativo impianto potrebbe produrre ogni anno 15 milioni di tonnellate di concentrato di minerale di ferro di altissima qualità per l’industria siderurgica. A pieno regime, il sito dovrebbe garantire circa 3000 posti di lavoro, di cui al 90% coperto da manodopera straniera (si legga: cinese).

Oltre ai minerali, ad attirare l’attenzione degli investitori esteri sono anche i giacimenti di petrolio individuati a largo della costa occidentale. All’inizio del 2014, British Petroleum si è assicurata la concessione petrolifera del cosiddetto “Blocco 8”, un’area di 2.630 chilometri quadrati a nordest dell’isola, che la compagnia inglese potrà sviluppare in joint venture con i suoi partner ENI e Dong Energy. Altre concessioni saranno in palio nei prossimi mesi.

A metà tra Europa e Cina

I tesori della Groenlandia fanno gola a tutti ed in particolare alla Cina, consapevole che il suo primato nel mercato delle terre rare è ormai a rischio. Il prossimo impiego, tra le altre cose, dei 3000 lavoratori cinesi sull’isola, testimonia la concreta possibilità che la Groenlandia “scelga” di diventare una colonia cinese allontanandosi così da Europa e Nordamerica, finora unici “ponti” economici e culturali tra Nuuk e il resto del mondo.

L’Unione Europea non può permettersi uno scenario simile. Il vecchio continente dipende dalle importazioni per 14 dei 17 elementi che compongono le REE; dipende interamente dall’export per cobalto, platino e titanio, per l’83% del suo ferro, il 74% del suo litio e il 54% del suo rame. Nel giugno del 2012, l’allora Commissario europeo all’Industria Antonio Tajani si è recato sull’isola per siglare un accordo di collaborazione tra le parti. L’intesa prevedeva un doppio obiettivo: assicurare materie prime all’Europa e aiutare la Groenlandia a svilupparsi; in base all’accordo l’Europa verserà inoltre il 35% degli utili ricavati dalle proprie compagnie estrattive nelle casse del governo locale. Ma la partita tra Bruxelles e Pechino prosegue.

Conclusioni

Le speranze di traghettare la Groenlandia nel nuovo millennio passano dallo sfruttamento delle sue risorse sin qui inaccessibili. Tuttavia già nel 2013 il quotidiano danese Politiken smorzava i facili entusiasmi: “L’inquinamento e la distruzione dell’ambiente seguiranno ancora una volta ‘la vaga atmosfera da Klondike’, e la polarizzazione sociale tra i centri urbani vicini alle miniere e i villaggi isolati continuerà ad aumentare.” I rischi insiti all’attività mineraria sono notevoli, ma l’isola ha bisogno di seguire questa strada. Lo dimostra la stessa sconfitta di Sara Olsvig, promotrice di una campagna elettorale all’insegna dell’ecologismo che evidentemente non ha pagato in termini di consensi. ll problema, sottolineava Politiken, è che gli abitanti della Groenlandia non hanno alternative: “Gli introiti della pesca calano, come anche le sovvenzioni provenienti dalla Danimarca. Dunque la gente è costretta a improvvisare. Pochi stranieri si accorgono di quanto è povera la Groenlandia.
L’isola si trova insomma di fronte ad un doppio bivio: le ricchezze celate tra i ghiacci potrebbero aprirle una nuova era, ma allo stesso tempo il loro utilizzo potrebbe creare parecchi problemi. In secondo luogo, deve decidere se restare nell’orbita dell’Europa oppure cedere alle sirene cinesi.
L’unica certezza è che qualsiasi decisione sarà presa a Nuuk potrebbe avere importanti riflessi sul futuro dell’economia globale.

* Scritto per The Fielder


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