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Perché l’Italia non cresce?

Creato il 24 maggio 2012 da Wally26

Il gap tecnologico e imprenditoriale dell’Italia rispetto non solo a giganti come America e Cina, ma anche in ambito europeo, sta crescendo sempre piu’ facendoci retrocedere persino in settori privilegiati come il turismo:

“Non siamo riusciti a sviluppare, soprattutto al Centro-Sud (inclusa la capitale) quel turismo «premium» che pretende strutture alberghiere di qualità e trasporti eccellenti. L’Italia è il paese che ha il minor numero di esercizi alberghieri riferibili a catene alberghiere: il 6 per cento contro il 22 per cento della Spagna, il 31 per cento della Francia e il 69 per cento degli USA. Nel paese del turismo non è nata una sola catena internazionale, mentre la Spagna ha NH Hoteles, la Francia Accor e gli USA Starwood. Questa frammentazione non ha penalizzato solo il turismo nelle località balneari, ma anche quello di cultura nelle città d’arte: il turismo a Roma, Firenze e Venezia è sottosviluppato e i visitatori delle città italiane fanno soggiorni più brevi e spendono meno di quelli che visitano le altre capitali del turismo all’estero: Parigi, ad esempio, registra 75 milioni di presenze all’anno contro i 25 di Roma”

Perché l’Italia non cresce?

Il seguente rapporto approfondisce e spiega i punti deboli del sistema-paese Italia.

Esce oggi per Garzanti il saggio Italia, cresci o esci, di Roger Abravanel e Luca D’Agnese, due ex consulenti della società McKinsey. Nel secondo capitolo, che vi proponiamo, spiegano «perché l’Italia non cresce».

Roger Abravanel ha lavorato per McKinsey per trentacinque anni, e oggi ne è director emeritus; è inoltre consigliere di amministrazione di Luxottica Group S.p.A., Banca Nazionale del Lavoro S.p.A., Teva Pharmaceutical Industries Ltd e dell’Istituto Italiano di Tecnologia. Luca D’Agnese è stato partner di McKinsey e amministratore delegato di diverse aziende del settore energia. Attualmente è presidente di ENEL Romania. Insieme avevano scritto anche i due libri Meritocrazia e Regole.

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L’economia italiana è immobile da più di dieci anni perché si è rivelata incapace di operare una transizione verso un’economia postindustriale. È invece rimasta ancorata a un modello «industriale-manifatturiero» vecchio di cinquant’anni. I nostri imprenditori, per la maggior parte, sono rimasti legati alle «fabbriche» e non sono stati capaci di sviluppare altre dimensioni di competitività, dal commercio all’acquisizione di altre aziende. Hanno perso l’onda della crescita nel settore dei servizi. Le piccole dimensioni e la frammentazione delle imprese non hanno poi consentito di approfittare in pieno della rivoluzione digitale.

Un’economia vecchia di cinquant’anni

Cinquant’anni fa un frigorifero costava più o meno come un’automobile, mentre ora quest’ultima costa venti volte di più. E questo non è avvenuto perché l’industria automobilistica non ha saputo ridurre i costi. È invece successo che, mentre il frigorifero svolge oggi più o meno le stesse funzioni di cinquant’anni fa (raffredda e congela), l’automobile è diventata un prodotto complesso, che con il passare degli anni si è arricchito di funzioni sempre nuove: climatizzazione, sicurezza, informazione… Per questo oggi, per progettare e costruire un’automobile, servono molte più competenze di mezzo secolo fa. Le aziende automobilistiche tedesche sono state più abili di tutti nel seguire la transizione verso la progettazione e la fabbricazione di un prodotto sempre più complesso. Così grazie alla loro tecnologia e organizzazione oggi dominano il grande mercato delle vetture alto di gamma e più sofisticate. E sono cresciute, nonostante l’emergere di formidabili nuovi concorrenti come i giapponesi e i cinesi. Negli anni Ottanta la BMW produceva circa 300 mila vetture all’anno, oggi ne fa un milione.

Invece le imprese italiane che avevano costruito nel secolo scorso una indiscussa leadership nel settore degli elettrodomestici (frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie…) non hanno avuto la stessa crescita. Negli ultimi cinquant’anni il mercato dell’elettrodomestico nei paesi occidentali è rimasto fermo, e tutta la crescita è avvenuta in paesi come la Cina, dove sono nati colossi manifatturieri come la Haier, un gigante da più di 20 miliardi di dollari di fatturato, con 30 fabbriche, una anche in Italia. Di conseguenza, le imprese italiane hanno smesso di crescere e molte di esse hanno chiuso. L’Italia è ancora il secondo paese in Europa per dimensione del settore manifatturiero e moltissime imprese italiane sono competitive sui mercati di tutto il mondo. Ma questo non è più sufficiente a trascinarsi dietro tutta l’economia del paese.

Il fenomeno che si è verificato nel settore elettrodomestici è avvenuto anche in molti settori industriali: le aziende italiane sono rimaste confinate in «nicchie» che nel mondo occidentale più di tanto non possono crescere (pelletteria, scarponi da sci, calze da donna) o in settori a basso valore aggiunto (ceramica, tessuti, acciaio), dove la maggioranza delle imprese italiane non è stata capace di «reinventarsi», neanche nei settori dove la grande tradizione italiana pareva più solida. In qualche caso lo ha fatto qualcun altro: vedi il caso di Nestlé, che si è reinventato il modo di bere il caffè (i negozi Nespresso, quelli degli spot con George Clooney), e di Starbucks, che ha fatto lo stesso con il cappuccino.

Prosegue su: Il Post


Filed under: Economia, Globalizzazione, Politica Italiana

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