Magazine Cultura

Perché la stupidità umana non torni più a pensare

Creato il 19 giugno 2011 da Fabry2010

Perché la stupidità umana non torni più a pensare

(dall‘ individualismo all’etica della responsabilità)

di Adelio Valsecchi

Il nostro tempo è caratterizzato dal venir meno di criteri etici culturalmente condivisi.

La secolarizzazione che ha dilagato nel XX secolo, è l’erede fedele di un vorticoso cambiamento sociale, politico e culturale. Nel suo dinamismo ha travalicato quei valori che nel bene e nel male, hanno costituito i paradigmi della moderna civiltà, lasciando nell’uomo la malaugurata convinzione di essere misura di se stesso. «La fine dei valori tradizionali si propaga come un immenso turbine » scrive il filosofo Emanuele Severino (1) convinto che « la filosofia moderna abbia dimostrato l’impossibilità di quell’ Ordinamento degli ordinamenti che è l’esistenza stessa di una Verità assoluta, di un Essere Assoluto che intenda valere come il Principio del mondo.» (2) Eppure il termine “Tradizione” evoca il “Sapere vissuto” dell’umanità che ci ha preceduto costruendo un’ identità culturale che va oltre le leggi scritte e la politica della Storia. Violare la legge non scritta veniva considerato nel mondo greco «vergogna universalmente riconosciuta». Il “Sapere vissuto” era il fondamento etico più profondo dell’agire morale greco, supporto e fondamento della legge scritta.

Nella multiforme cultura europea anche gli stessi diritti umani sono stati promossi seguendo prospettive e finalità diverse perché molteplici sono le radici culturali da cui hanno preso forma. Il linguaggio della comunicazione ha ancor più differenziato i valori inerenti alla specificità umana.

I conflitti sociali non sono più innescati dalle ideologie ma da difformi visioni antropologiche.

I valori cristiani e i valori laici non avendo trovato una sintesi comune e un proficuo dialogo, si sono contrapposti : da una parte il Cristianesimo per sua natura manifesta un’accentuata radicalità nell’espressione dei suoi valori; dall’altra, la filosofia laica ha conservato un anticlericalismo strumentale, allontanando le due culture che in diversa misura, hanno costituito il modo di essere e di pensare dell’uomo di oggi. La condivisione di criteri etici, sebbene abbia la finalità di premiare l’uomo nella sua totalità, in un contesto così antitetico, non riesce a realizzarsi.

La dignità dell’uomo viene condivisa da tutti ma seguendo percorsi diversi perché difforme è la visione antropologica dei valori primari: la vita, la famiglia, l’educazione. Si è cosi configurata una società in cui i valori sociali non coincidono con i valori della persona.

Il Concilio Vaticano II ha posto le premesse per rifondare in modo specifico la teologia morale come scienza del significato cristologico della vita umana.

I movimenti teologici che sono sorti a partire dagli anni ’70 (L’Autonomia della morale in contesto di fede e l’Etica della fede) hanno tentato di elaborare un’antropologia filosofica e teologica con grande passione etica senza riuscire a costruire una sintesi tra le diverse posizioni, in un clima polemico oltre misura. Da una parte, sottolineando l’importanza della dimensione storica e culturale dell’uomo nel suo agire, si enfatizza un’antropologia fondata troppo ottimisticamente sull’intrinseca capacità dell’uomo di saper discernere, fra il bene e il male, il “Meglio”. Dall’altra la morale viene fondata e giustificata essenzialmente sui paradigmi della fede, proponendo un’antropologia metafisica in cui l’uomo viene svuotato dalla sua natura storica.

Giovanni Paolo II ha dato un impulso nuovo alla teologia morale rimarcando nella “Redemptor hominis”, la necessità che la parola rivelata, sia matrice su cui s’innesta il pensiero teologico dell’autorivelazione di Dio tramite Cristo. L’uomo, aderendo ai suoi insegnamenti, acquista dignità e la sua umanità è aperta a recepire un valore trascendente, partecipando a pieno titolo, al Regno di Dio annunciato. Il nuovo impianto teorico per una rifondazione della teologia morale, deve percorrere un cammino che ponga la sue radici in una antropologia cristocentrica chiave d’accesso per una teologia messianica. In questa prospettiva l’uomo, come soggetto morale, non entrerà più in conflitto con la sua storicità, perché in Cristo si può scorgere sia la nostra immagine e somiglianza con Dio, sia la sua piena umanità. Ė all’interno di questi confini che la nostra coscienza si modella sull’esemplarità di Cristo. L’uomo che crede, si riveste così di una nuova coscienza morale che scaturisce dalla piena adesione alla parenesi evangelica superando compromessi e appianando contrapposizioni.

Partendo dal presupposto che l’agire morale ha come filtro e fondamento la voce di Dio, non dobbiamo temere di considerare l’uomo inserito in un contesto storico consumato dalla secolarizzazione che abbaglia e svilisce i valori cristiani della vita, della famiglia e dell’educazione intesa come archetipo della realizzazione umana. Come essere creaturale l’uomo è per sua specificità, un essere culturale per eccellenza, in quanto comprende il mondo e l’umanità in consonanza al suo vissuto educativo; diventa adulto e assume senso critico se pensa e progetta in relazione agli altri che compartecipano al suo orizzonte di vita. Egli dipende dal modello culturale che ha appreso e con cui coglie i significati del suo esistere. I valori assunti, agiranno come presupposto nel discernimento delle scelte fondamentali della vita. Ecco l’importanza dell’interazione fra l’uomo e i suoi prossimi, fra l’uomo e la società. Ė un passaggio obbligato nell’acquisizione di una identità e una coscienza matura, in grado di produrre un bene morale, personale e sociale. Sembra paradossale ma l’uomo deve comprendere che la sua singolarità non poggia sull’individualità ma per sua stessa natura si radica nella relazione di equilibrio e di interscambio fra soggetto e collettività. La nostra identità si può configurare solo nella relazione reciproca. L’alternativa a queste modalità espressive, non ha altri approdi che salvano le innate potenzialità delle umane attitudini.

Poste queste premesse, l’uomo, come il bambino che vuole crescere, deve superare la fase critica dello svezzamento e passare dal mondo dei bisogni al mondo dei desideri.

Le scienze psicologiche ci avvertono che la nascita della coscienza è legata alla rinuncia della immediatezza, alla rinuncia della gratificazione del bisogno per levarsi in volo verso la consapevolezza che ci induce a perseguire la nostra crescita entrando nel mondo del desiderio. Come la mamma svezza il bambino per spronarlo a crescere, così l’uomo deve uscire dai confini ristretti dell’immediatezza del bisogno per approdare al riconoscimento”desiderabile e necessario” che la vita è un progetto finalizzato al bene e al benessere morale, ad ambire quei valori forti che l’uomo ha per sua natura. Solo attraverso questo varco si concreta l’esperienza umana. Se l’uomo si confina nel mondo dei bisogni, frena il suo processo di crescita, avvilisce la sua identità in quanto assolutizza i bisogni e diventa idolatra di se stesso. E non potrà essere guidato verso una maturità creativa e appagante. L’identità dell’essere adulto esige necessariamente la conversione dal modello dei bisogni al modello dei desideri. Il mondo del desiderio implica in prima istanza il rifiuto del bisogno e una relazione di distanza dalla realtà in cui viviamo per poter pianificare con senso e dare significato all’agire morale. L’uomo nasce e si costituisce nella cultura. E l’interscambio, la reciprocità, sono tappe imprescindibili che introducono nella piena maturità. Infatti il linguaggio, i gesti, la comunicazione sono gli elementi costitutivi che mediano tra i due orizzonti. In questo contesto l’uomo si rivela un vero soggetto morale, capace di convergere la sua sagacia verso una realizzazione sempre più perfettibile dei suoi propositi.

L’antropologia cristiana è il percorso più consono al superamento dell’immediatezza del bisogno per coinvolgere l’uomo nella progettualità della sua vita, nel darne un senso e una direzione.

La dimensione cristiana della vita, prospetta una comunità umana in cui le qualità intrinseche del soggetto e della società si compenetrino, entrino in osmosi, in cui l’uno si integri con l’altra e si sostengano con reciprocità nella promozione del bene comune. Qual è l’alternativa? Nel contesto sociale di oggi si aprono due orizzonti : o si vive in conflitto o si è indifferenti e ciò porta allo sconforto e all’incomunicabilità tra coloro che vogliono costruire una viva civiltà. L’uomo si sente più solo. Solitudine e angoscia sono i sentimenti più ricorrenti negli umanisti del XX secolo. Si è forgiata una cultura che dispone l’uomo a considerarsi un attaccapanni al quale sono appesi degli abiti che raffigurano peculiarità diverse. Ė il paradosso pirandelliano : l’uomo ha una maschera per ogni ruolo. Il pragmatismo e l’individualismo imperano in questo tessuto culturale. Nell’agire morale, che dovrebbe essere il substrato su cui poggia la civiltà dei valori, non esiste più il bene e il male. Il bene è ciò che io voglio. La cultura che sta alla base di questa supposta ed euforica modernità è erede del pensiero niciano e ha prodotto un ribaltamento della logica ebraico cristiana : l’uomo è volontà di potenza, è creatore e fruitore della vita e della morte, del presente e dell’avvenire, in sintonia con la sua volontà creatrice.

La verità delle cose non è legata allo sforzo di esplorare dei riferimenti attendibili ma a ciò che la mia volontà mi impone. L’umanità si divide così in fatui “pecoroni veneranti” che rispettano un ordine interiore alla ragione e alla natura e in sedicenti “spiriti liberi” che interpretano la realtà umana secondo un evanescente libero arbitrio, il quale favorisce la volontà dell’individuo demolendo il benessere sociale, punto nevralgico di ogni politica umana.

Anche la scuola, luogo di istruzione e formazione, da fucina di trasmissione dei valori che la storia della civiltà ha con fatica costituito, è diventata un luogo dove ancora prosperano pregiudizi, retaggi ideologici, spreco di risorse, vani espedienti pedagogici. Sembra spegnersi la passione della mente che un tempo era anelito educativo per la formazione di una gioventù preparata, nei sentimenti e nei giudizi, alla vita, alla cultura, alla convivenza solidale. Ė il retaggio di una cultura dominante che induce l’uomo ad autoescludersi, come soggetto attivo, da una società propositiva e compartecipe, a rinnegare ogni relazione se non è doppiogiochista o di facciata, a cedere al solipsismo conquistando un proprio eremo di segregazione. Si esplicita sempre di più la difficoltà di esprimere la propria soggettività attraverso la professione, i valori relazionali e la famiglia. Ecco perché, interpretando Montale, “il male di vivere” si avventa sull’uomo e la speranza di un futuro per l’umanità « brucia inesorabile, lenta come un duro ceppo nel focolare.» (3)

Nell’uomo, inebetito dalla “cultura del dominio,” prospera l’egocentrismo mentre la “forza della cultura,” maestra di vita, perde l’orientamento e non trova sbocchi. Se l’individualismo non dà crediti alla dignità umana, la morale evangelica sprona verso un opzione fondamentale che abbraccia l’uomo nella sua completezza, indirizzando la sua ragion d’essere verso i riferimenti palesi del messaggio evangelico.

La denuncia all’individualismo di non essere dispensatore di bene morale, è legata a due istanze : l’amplificazione della scelta personale senza una mediazione sociale e la caparbia coerenza alla stessa. Ogni cernita nasce e viene pianificata dalla persona.. “ E’ una mia scelta,” si dice. Ma la scelta non è un fine. Non è un bene o un male. La scelta non è un atto morale ma una premessa da cui parte un progetto morale. Si dice ancora, seguendo il modello niciano, che “ la mia scelta parte da me e in quanto tale è buona perché è mia”. Si confonde così un mattone con una casa. Si scambia erroneamente un giudizio morale con i presupposti che danno accesso a un consapevole agire morale. Questa è l’eredità del nichilismo, del relativismo etico : la mitizzazione dell’immediato, del vivere il presente per percezioni ed espedienti e il futuro non come progetto ma come destino senza profondità quasi a parafrasare un verso del poeta romano Baldo Meo : «finiremo come lumache senza pensiero / ammucchiati in un giorno di pioggia». (4)

Forse dimentichiamo che l’uomo non è come un pomodoro che non deve far nulla per crescere ma un essere che vive in una dimensione progettuale e con fatica deve ideare il suo avvenire. L’avidità dell’utilitarismo e dell’individualismo morale apre le porte a un coacervo di aporie. Da una parte rende assoluto l’Io, dall’altra favorisce una degradazione della responsabilità.

Su questi orizzonti l’uomo non persegue il bene, il vero, il giusto ma il conveniente, che non permette una benefica interazione fra i soggetti sociali in vista di una promozione reciproca.

Si erge così uno steccato tra individuo e società, si smarrisce un vero dialogo tra le culture e si inventano nuovi stili comunicativi da caravanserraglio, dove predomina il falso come valore, la doppiezza nel linguaggio, l’ autoreferenzialità e tutte quelle sottigliezze antiche e moderne che sono espressioni demagogiche. E i giovani, che già soffrono il complesso della “rana toro,” la quale stima baricentro dell’universo il ventre che ostenta, sono ancora più frastornati e recalcitranti di fronte alle prove della vita e alla vaghezza del loro avvenire. Sembra non abbiano più niente negli occhi. Sembra spenta ogni speranza per un futuro se l’egolatria continua ad essere cultura dominante. L’individualismo non paga, ma curva l’uomo sotto il giogo della solitudine e dell’indifferenza.
La morale cristiana muove in altre direzioni, in modo particolare verso la persuasione che l’uomo è quello che fa. Se il suo agire è buono, la carità diventa l’espressione più profonda della sua identità. E non si domanda cosa deve fare, ma perché deve fare. Il Cristianesimo, nonostante il contesto antropologico in cui si muove, ha il coraggio di proporre un’etica fondata sul Vangelo per dare senso e valore alla vita. e per tutelare quell’umanità che ancora non riconosce di essere figlia di Dio.

A conclusione di un’intervista di Paolo di Stefano a Carlo Lizzani,(5) il grande maestro del cinema confessa alcuni suoi intimi convincimenti che hanno sostenuto, nel bene e nel male, il suo passato umano e professionale : le letture di Hegel e Marx fatte nell’adolescenza lo hanno convinto che il dipanare e comprendere la storia dell’umanità esige una continua ricerca; l’essere tutt’ora sopraffatto dall’invidia verso coloro che hanno la fede che li sostiene; il considerare che la vita è un dono su cui non riesce a darsi ancora un perché da identificare in un Essere Supremo. E sui confini del dubbio Carlo Lizzani ferma la sua esternazione esistenziale chiedendosi se il Mondo è Sostanza o è figlio del Nulla. Ma il perspicace giornalista e scrittore, a cui non devono piacere le cose ambigue, a chiosa della sua intervista, appunta :« In questi giorni, Lizzani tiene sul comodino il libro di un cosmologo brasiliano, Mario Novello. Si intitola “Qualcosa anziché Nulla”.»(6) A buon intenditor………

Io amo pensare che se il “Nulla” non garantisce nulla; “Qualcosa,” è già per sé un evento plausibile, è quell’istinto razionale che l’uomo, nella sua evoluzione, si sente addosso. Tra i vestiti e la pelle. Senza la burbanza di spacciarsi per dio.

E il pensiero torna ad Heidegger che consiglia di uniformarci al sentire dei poeti perché solo se entriamo nella dimensione poetica della vita possiamo cogliere e giustificare l’Essere e la Verità. Nella speranza, che al di là di questo breve tratto del terzo millennio, la stupidità non potrà mai più arrogarsi il diritto di “Pensare”.

———————————————-

(1) Corriere della Sera 14 Aprile 2011, pag. 48

(2 )idem

(3) E. Montale, Spesso il male di vivere, Piccolo testamento.

(4) Baldo Meo, Epitaffio e altre meditazioni, ed. LietoColle, 2011

(5) Corriere della Sera 4 Aprile 2011

(6 ) idem



Potrebbero interessarti anche :

Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Possono interessarti anche questi articoli :