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perché le madri parlano al plurale

Da Gynepraio @valeria_fiore

E’ di qualche giorno fa la notizia secondo la quale il nostro Paese, nell’anno 2013, ha segnato il suo record negativo di nascite: solo 514.000, pari a 1,39 bambini per donna. Non so se l’Istat si prende gioco di me o se, più probabimente, la mia prospettiva è totalmente sbagliata: ma io sono letteralmente circondata di gestanti, puerpere, lattanti e gattonanti.

Vivo questo fenomeno da outsider (esperienza indiretta ma non meno impattante) e osservo ammirata le stesse ragazze con cui un anno fa brindavo e ballavo sui tavoli, prendersi cura di un neonato. Io nel pianto dei bambini, che tendenzialmente scatta non appena me lo piazzano in grembo, non sento l’umana disperazione di chi si sente mancare la terra sotto i piedi la mamma. Io odo le voci: “Vai via, razza di inetta che puzza di Chloé, ridammi mia madre che profuma di latte. Lei sì, che ha una voce ovattata, mica come te che sei sguaiata come una vaiassa. Anzi, in segno di schifo faccio subito ruotare il mio fragile capino all’indietro, così sarà chiaro a tutti che sei incapace di tenermi in braccio e lei accorrerà qui da me. Burp, ti faccio pure una bella ricottina sul bavero.”

Solo per questo motivo, amiche neomadri, non prendo in braccio i vostri bambini. Però vi guardo con occhi gonfi di meraviglia mentre armeggiate, li imbragate, li strafogate, li sbatacchiate su e giù con una naturalezza inspiegabile. Non può essere tutto istinto. Ma come fate? Dove la trovate la voglia? Com’è possibile che abbiate imparato tutte queste cose? Che sappiate subito qual è la cosa giusta da fare, quando, vi ricordo, annoveriamo innumerevoli serate sull’annoso tema “meglio chiamare o aspettare che lo faccia lui?”

Ma adesso che ho letto questo articolo di Lauren Laverne su The Guardian, la situazione mi è più chiara. L’autrice paragona prendersi cura di un bambino a spingere un masso su per una collina: è un compito duro e faticoso, ma si tratta di fatto di un task semplice. Il bambino è infatti maestro di semplificazione. Meglio di un life coach, ti dice sempre, in qualsiasi momento, cosa fare. Il neonato ti libera dall’ossessione del time management: non occorreranno le sveglie né le agende, visto che tutto il tempo sarà scandito da lui. Grazie alla creatura, eventi banali come un giro al supermercato smetteranno di essere noiosa routine e diventeranno degli happening.

Il primo vantaggio dello snellimento dell’agenda è l’eliminazione radicale -in quanto obbligata- di quei soggetti e impegni che l’autrice definisce “draining”, cioè sterili e prosciuganti. Di conseguenza, dedicarsi alle persone che si amano. Comprarsi poche cose, e desiderare di averne ancora meno per non doverle lavare. Il secondo vantaggio è accettare di essere fuori dall’arena -almeno per un po’-. Non essere più informati, aggiornati, allineati con gli ultimi trend. Fare pace con la propria obsolescenza, secondo l’autrice, è il primo passo per familiarizzare con l’idea della mortalità.

le madri parlano al plurale

Ma a questa nuova consapevolezza (sono umano e morirò), si contrappone la presa di coscienza della propria onnipotenza (sono Dio e dono la vita). You made a human! dice l’autrice. Dopo aver generato un bambino, si rivedono i confini del concetto di possibilità. Si acquisiscono fiducia in sé e sprezzo del pericolo. Arriva una forte determinazione a trasformare il mondo in un luogo migliore, al solo scopo di proteggere “quel misterioso essere larvale sotto cui si manifesta il tuo cuore, e che ora starà fuori di te per sempre“.

Ecco quindi spiegata l’assertività che osservo ammirata nelle mie amiche quando mi strappano il bambino urlante di dosso. Ma anche il cambio di registro con cui gli mormorano: “No, amore, non facciamo così, adesso mangiamo e vedrai che poi andrà tutto benei”. Ecco spiegato quello strano plurale.

*estratto dal tuo corpo attraverso procedure più o meno raccapriccianti, ma questa è un’altra storia


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