Guardando Inter-Wolfsburg di Europa League si è palesata davanti ai miei occhi l’esistenza di una particolare categoria di giocatori che io definirei quella dei Fenomeni Solipsisti (D’ora in poi li chiameremo F.S.).
A questo non convenzionale manipolo di calciatori sono, potenzialmente, ammessi tutti, indipendentemente dal ruolo e dall’età. Il discrimine è una speciale attitudine al solipsismo calcistico, al gioco solitario e alla propria esaltazione a discapito dei compagni di squadra.
Negli ultimi 5-10 anni noi tifosi di calcio abbiamo imparato che il progetto è tutto. Lo abbiamo imparato a nostre spese – ché le società italiane, quelle che tifiamo da quando eravamo bimbi, non sono brave nel pensare a medio-lungo termine –, e ormai, quando la squadra del cuore va in crisi, sono i tifosi stessi a lamentare una mancanza di progettualità.
Il mondo del calcio conosce due tipi di progetti: quello fuori e quello dentro il campo, anche se è ormai chiaro che i due procedono in parallelo. Se una squadra ha i conti in ordine e riesce a darsi un orizzonte finanziario di medio termine, riuscirà anche a darsi una pianificazione sportiva in qualche modo slegata dai risultati ottenuti nell’immediato.
Per quanto riguarda il campo, dopo aver apprezzato il dominio del calcio collettivo barcellonista e guardiolista, i risultati della formula magica ancelottiana con cui il tecnico emiliano ha trasformato un’accozzaglia irrazionale di fenomeni come il Real Madrid in una squadra che gioca insieme (ok, non negli ultimi tempi), e dopo aver ammirato l’esempio di cheap football ragionato proveniente da Dortmund e Atletico Madrid, anche noi appassionati ci siamo affezionati a quest’idea di progetto.
Non fantastichiamo più, per la nostra squadra, l’acquisto di calciatori dal costo emiratesco, ma pensiamo anche noi in termini di disegno complessivo e sostenibilità. Ci chiediamo se quel giocatore si sposerà caratterialmente e tecnicamente con i dettami del tecnico, con lo stile della società, con i compagni di squadra.
Detto ciò, se io fossi il direttore generale di una squadra di Serie A, non vorrei mai nella mia formazione (giocatori come) Menez e Guarin. È un’affermazione complessa da giustificare, perché il francese è pur sempre giocatore da 15 goal in questo campionato, mentre il colombiano è una delle poche note positive di questa seconda era-Mancini all’Inter.
Il punto è che Menez e Guarin sembrano appartenere a un particolare sottogenere di calciatori, quello dei F.S. Chi sono gli F.S.? Sono quei calciatori che per esaltarsi ed emergere hanno bisogno che la propria squadra vada in difficoltà, pratichi un calcio senza idee e disorganizzato nel quale loro possano mettere il loro talento al servizio di se stessi.
È la disorganizzazione il punto fondamentale: più i loro compagni faticano a disporsi secondo un sistema di gioco chiaro ed efficace più la loro qualità emerge con forza e precisione.
Per quanto concerne Guarin e Menez, va subito specificato che sono molto forti, sia dal punto di vista tecnico sia fisico, e questo non vale soltanto in un raffronto con i loro compagni ma con l’intero campionato.
Sono però anche due anarchici, la cui collocazione tattica è invero complessa: Menez è allo stesso tempo un ala, un trequartista, quest’anno prima punta stile falso nueve con licenza di svariare su tutto il fronte d’attacco, ma anche seconda punta e regista offensivo. Per il colombiano le possibilità si assottigliano, ma neanche poi così tanto: mediano interditore, mezz’ala, trequartista, a volte seconda punta.
La duttilità non è un male, e anzi, la storia del calcio è piena di giocatori il cui pregio più grande è stato quello di sapersi adattare e reinventare in più zone: penso a J.Zanetti, per esempio.
Nel caso dei due sopracitati, però, la versatilità si accompagna a fastidiose controindicazioni che ne sconsigliano l’utilizzo prolungato – della serie che pensi di avergli trovato la collocazione definitiva e ottimale e invece no – in ognuna di queste aree di campo anche quando in realtà il loro rendimento personale suggerirebbe l’esatto opposto.
A dire il vero, quest’osservazione è molto più facile per Menez, perché ormai più di una voce ha colto e criticato la sua problematicità tattica e la sua incompatibilità con qualsiasi prima punta Inzaghi abbia provato ad affiancargli nel corso della stagione (tutte caratteristiche che lo rendono un perfetto F.S.).
Il francese quest’anno gioca da finta prima punta rinculando in ogni zona del rettangolo di gioco alla ricerca di palloni giocabili – movimento accentuato dalle croniche difficoltà del Milan a costruire azioni.
I risultati, perlomeno a livello personale, non sono stati affatto negativi: Menez ha segnato molto e a inizio campionato si era segnalato anche per una discreta collaborazione con i compagni d’attacco, che riforniva con assist e passaggi di qualità.
Un F.S. crea però essenzialmente due ordini di problemi:
- accentra il gioco su di sé escludendo di fatto qualcun altro da esso, e
- è incostante e quindi tendenzialmente poco affidabile.
Con Menez si verificano entrambe le situazioni. Inzaghi ha tentato la via coesistenza tra il francese classe ’87 e una prima punta vera – fisica e, se vogliamo, statica –, ma i risultati non sono stati positivi. Menez, infatti, che non occupa costantemente l’area di rigore, richiede che quello spazio rimanga libero per il suo gioco, i suoi inserimenti o quelli di qualcun altro dettati da un suo passaggio.
Per l’allenatore del Milan questo è un problema: da una parte si ritrova con due bomber fissi in panca (tra l’altro, sia Destro sia Torres sono il frutto del lavoro della società in sede di mercato), dall’altra sa che schierarne anche solo uno significherebbe limitare le prestazioni del miglior giocatore del Milan quest’anno.
E i problemi di/con Menez non finiscono certo qui. Anche accettando il suo ruolo di prima punta di movimento, Inzaghi si ritrova con qualche grattacapo.
- Menez non fa fase difensiva: non pressa, se perde palla non rincorre l’avversario e non occupa strategicamente nessuna particolare posizione in fase di non possesso, anche perché, essendo libero di svariare su tutto il campo, è difficile trovarlo due volte consecutive nella stessa zona.
- Menez è fondamentalmente un calciatore solitario e spesso egoista, uno che, se non percepisce il supporto dei compagni, non passa il pallone e opta per la giocata personale.
Su un campo da calcio un atteggiamento del genere è già abbastanza odioso e deleterio, ma collegato al punto 1 – al fatto che Menez senza palla si assenta dal campo – diventa disastroso: Menez perde palla bruciando spesso i movimenti dei compagni – ok, nel Milan attuale non così spesso, ma a inizio anno vi assicuro che era così – e lo fa in momenti e zone di campo particolarmente delicate – per essere chiari, in fase di ripartenza o a centrocampo, dove spesso il francese scende a recuperare palloni giocabili.
Detto tutto ciò, bisogna ammettere che immaginare un Milan senza Menez sembri un'eresia, visto che le poche cose belle messe in mostra dalla formazione di Inzaghi quest’anno sono passate tutte o quasi dal lui. Ma è perfettamente normale: Menez è un accentratore, di gioco e di palloni, e ha bisogno che le azioni della sua squadra passino per i suoi piedi e di sapere che sarà così. Il francese, peraltro è uno dei potenzialmente più rapidi della Serie A palla al piede, ha poi i suoi tempi di gioco e il suo modo di pensare lo sviluppo di un’azione e di una partita.
Pensare di inserirlo in un collettivo dal calcio corale è pura utopia. Non a caso, pur essendo considerato uno dei talenti più puri del calcio francese dell’ultimo decennio, ha sempre deluso nei grandi club.
Al Milan non si può dire che stia fallendo: ci pensa la squadra a farlo per lui. Affinché Menez si esprima completamente, i suoi compagni devono perdere la bussola, il senso del gioco. D'altronde, è chiaro che per una squadra in confusione come il Milan sarebbe molto più facile schierare una vera prima punta a cui affidare la finalizzazione del gioco, che invece, in questo momento, si trova legato a movimenti poco chiari o assenti dei giocatori offensivi, diventando di fatto dipendente dalle lune di Menez.
Per Guarin il discorso è allo stesso tempo simile ma leggermente più complesso. Considerati ruolo, capacità tecniche e anarchia tattica, il colombiano è un centrocampista totale in grado di ricoprire tutte le fasi della mediana (incontrista, mezz’ala, trequartista, esterno) in qualsiasi sistema di gioco grazie alle sue notevoli capacità fisiche.
Ma come per Menez e per ogni F.S., anche nel caso di Guarin questa duttilità gli si ritorce contro.
Innanzitutto, qual è il vero ruolo di Guarin? Probabilmente quello di mezz’ala in un centrocampo a 3 (a 4 se consideriamo anche il trequartista, a 5 in un 3-5-2), dove può sprigionare la sua potenza fisica (tiro e corsa in avanti) senza doversi preoccupare eccessivamente della fase difensiva avendo almeno un centrocampista dietro di sé.
Mancini però, come capitava spesso anche nella gestione Mazzarri, interpreta Guarin più come un tappabuchi – rifacendosi all’eclettismo di cui sopra – che come un vero specialista.
Così si spiega il motivo per cui nell'ultima partita di Europa League Mancini lo abbia schierato incontrista davanti alla difesa in un centrocampo a due. Pur non essendo tra i peggiori, credo che l’impaccio sia stato evidente. Guarin non protegge adeguatamente la difesa; probabilmente sarebbe in grado di farlo, ma non lo fa perché spesso si sgancia in avanti e perché non abituato ai movimenti a protezione del reparto arretrato.
Non è un fatto da poco: spesso le squadre che subiscono tanti goal hanno un problema nello schermo davanti alla difesa più che nei difensori stessi. Un esempio? La BBC della Juve: Barzagli, Bonucci e Chiellini sono oggi considerati i migliori d’Italia, ma prima di Conte erano delle scarpe rotte. La differenza la fa un gioco che protegge meglio la difesa e il fatto che, dove oggi ci sono Pirlo, Pogba, Marchisio e Vidal, prima ci fossero Felipe Melo e Poulsen.
Lo stesso discorso vale per il Guarin trequartista. Il colombiano possiede la qualità per sopperire, in certi momenti – che possono essere intere partite ma anche fasi di uno stesso match –, a un bisogno della squadra, ma non dà il meglio di sé in quel ruolo.
Ciò nonostante, sia Mazzarri che Mancini hanno provato anche quella collocazione, sperando che Guarin riuscisse a fare quello che ci si aspetta sempre da uno come lui: spaccare la partita con un goal o un paio di azioni fisicamente debordanti in modo da mettere k.o. l’avversario.
Questa è probabilmente la miglior stagione di Guarin da quando è in Italia (5 le reti in campionato, in sole 22 presenze), e se l’Inter nutre ancora qualche speranza di Europa lo deve solamente a lui, Icardi e Handanovic. Non mi stupisce: se il mio ragionamento è valido, alla sua buona annata ne corrisponde una negativa del club. E l’Inter è decima in classifica.
Maurizio Riguzzi
@twitTagli