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Perché scegliere un surrogato?

Da Rivista Fralerighe @RivFralerighe

Da Fralerighe Crime n. 8

Perché scegliere un surrogato se si può avere l’originale? Non ha senso.

E se poi il surrogato in questione richiede anche più tempo per essere fruito, è ovvio che tale scelta sia ancora più senza senso.

Ma di che surrogato e di che originale sto parlando?

Semplice: del romanzo e del film, dove il primo gioca il ruolo di surrogato del secondo. Eh sì.

Negli ultimi decenni, il romanzo si è ritrovato a passare dall’essere la principale forma di narrazione (basti pensare al successo del romanzo nell’Ottocento) all’essere un media narrativo ormai obsoleto, da rinnovare. Questa competizione tra romanzo e film, volta sempre più a favore dell’ultimo, ha portato molti romanzieri ad attuare una semplice strategia: rendiamo più filmico il romanzo, in modo da riuscire a reggere il confronto.

Ma è proprio così?

A me sembra invece che negli ultimi decenni, il romanzo, appiattitosi sull’imitazione del cinema o peggio su quella di classici dal linguaggio ormai inadatto a coinvolgere il pubblico, abbia vissuto una fase di progressivo declino.

Cosa fare, allora, per permettere al romanzo di riprendersi e ritornare a essere un media narrativo popolare?

Innanzitutto, a mio parere, bisogna sempre tenere in mente che il romanzo è una forma narrativa ben diversa dal cinema, che con quest’ultimo non deve confondersi, smettendola quindi di imitarlo. Ci sono autori che lo sanno e mettono in pratica tale conoscenza: i migliori tra questi fanno parte della cerchia dei più letti.

Perché scegliere un surrogato?Faccio degli esempi, inerenti al nostro campo (narrativa criminale). “Il Padrino” di Mario Puzo: un classico popolare del ventesimo secolo. Scritto in un’epoca (è stato pubblicato nel 1969) in cui il cinema era già in ottima salute, specie negli U.S.A., tale romanzo riscuote un successo di pubblico straordinario. Evidentemente ci devono essere dei motivi, dato che Mario Puzo non era già famoso per aver partecipato a un reality show, né tantomeno era figlio di un editore o di un potente (il padre era ferroviere).

Mister Semplicista dirà: “Capirai, oh! Ha scritto un libro che parla di mafia, con una certa dose di violenza e sesso, un po’ di intreccio… Che ci vuole a fare successo così? È la solita ricettina.”

A Mister Semplicista rispondo: “Uno, se è così semplice, fallo e vediamo se anche tu ottieni lo stesso successo. Due, ce ne sono tantissimi di romanzi su criminalità, violenza e sesso, ma non hanno avuto affatto lo stesso successo de “Il Padrino”.”

Tolta di mezzo questa spiegazione facilona, procedo con la mia ipotesi. I temi trattati sono sicuramente attraenti per il grande pubblico, ma ciò che fa la differenza tra Puzo e altri è il modo in cui scrive.

Vi faccio degli esempi. Partiamo con la narrazione, da parte dell’autore, dell’infanzia di Vito Corleone. Questo capitolo fa parte della sezione “background dei personaggi”, chiamiamola così, che se non ricordo male è presente verso la metà del romanzo. Non è l’inizio del romanzo, che anzi è in medias res; è un approfondimento del personaggio.

Il Don era nato nel villaggio moresco di Corleone, in Sicilia, come Vito Andolini. Ragazzo di salute cagionevole sfuggì, grazie a persone di buon cuore, che lo imbarcarono per le Americhe, agli uomini di Don Ciccio; era costui un mafioso del paese che, per questioni d’onore, aveva sterminato la famiglia del giovane. Questo tragico evento segnerà la vita dell’innocente Vito e probabilmente lo renderà l’uomo spietato ma allo stesso tempo guidato da un personale senso di giustizia, che poi fu. 

Se Mister Semplicista avesse un blog, e se nel suo blog parlasse di scrittura, probabilmente commenterebbe quanto sopra scritto in questo modo: “Ommioddio!!!!111!! È raccontato!!!! Devi mostrare tutte quelle cose, non puoi raccontarle!!! Il narratore deve farsi da parte!!! Show don’t tell!”

Questa reazione nasce dall’accettazione e dall’applicazione acritica del dogma più in voga nel campo della scrittura creativa: lo show don’t tell, appunto. Attenzione: non critico lo show don’t tell a priori ma la sua attuazione in modo scriteriato.

Perché scegliere un surrogato?Proviamo a renderci conto di come verrebbe fuori il romanzo in questione con tale approccio.

“Corleone, 7 dicembre 1891. Gli edifici hanno le caratteristiche x, y e z, e insieme ad a, b, c concorrono a rendere il villaggio moresco. La signora Andolini sta partorendo (mostrare il parto).

Capitolo successivo: dodici anni dopo.

Mostrare il diverbio tra Andolini padre e il boss. Mostrare l’omicidio di Andolini padre, magari mostrando anche quando il boss chiama i mandanti dell’omicidio e impartisce gli ordini ecc ecc.
Mostrare poi la paura di Vito giovane (che se non la mostri non si intuisce mica, gli hanno solo sterminato la famiglia…), mostrare la nave transatlantica ecc ecc.”

Ora, mostrando tutto ciò, non si finirebbe col creare una sorta di film su carta? Un surrogato, quindi, del film? Per chiarirci le idee, leggiamo come è stata scritta la sceneggiatura di tale parte dell’opera, o meglio di una parte di quanto sopra, poiché inserirla tutta renderebbe la lunghezza dell’articolo eccessiva.

Nota: non trovando la versione in italiano della sceneggiatura, ho tradotto quella dall’inglese. Eventuali errori sono da attribuire a tale motivo.

Esterno giorno, un edificio signorile, maestoso.

Un ragazzino, di otto o nove anni, con occhi spalancati e spaventati, viene portato per mano velocemente. Questi è VITO ANDOLINI, che diventerà il Padrino. 

L’INQUADRATURA CAMBIA, rivelando che viene portato per mano da sua madre, la VEDOVA, attraverso un campo che conduce ai cancelli ornamentali di un edificio signorile.

In vari posti vicino ai cancelli vi sono degli uomini armati di lupara. I cancelli sono aperti; e la VEDOVA e suo figlio sono mostrati prima di DON FRANCESCO, un uomo sulla sessantina. Porta i pantaloni con le bretelle, e una camicia bianca aperta, sistemata approssimativamente sulla sua pancia spropositata. Indossa un cappello per proteggersi dal sole cocente, e ostenta orgogliosamente un orologio e una catenina d’oro al
di sopra dei vestiti.

Siede su una sedia, vicino a un gruppo dei suoi uomini in giardino, ascoltando la VEDOVA, che gli sta di fronte con il suo unico figlio.

VEDOVA (in Siciliano) Don Francesco. Avete fatto uccidere mio marito, perché non si voleva sotto-mettere. E il suo figlio maggiore, Paolo, perché aveva giurato vendetta. Ma Vito ha solo nove anni, ed è lento. Non parla mai.

DON FRANCESCO (in Siciliano) Non ho paura delle sue parole. 

VEDOVA (in Siciliano) È debole.

DON FRANCESCO (in Siciliano) Diventerà forte crescendo.

VEDOVA (in Siciliano) Il bambino non vi può fare del male.

DON FRANCESCO (in Siciliano) Diventerà un uomo, e allora tornerà per vendicarsi.

Supplicando, la vedova si avvicina al Don, fin quando non riesce a inginocchiarsi davanti a lui.

VEDOVA (In Siciliano) Vi Supplico, Don Ciccio, risparmiate il mio unico figlio. È tutto quel che ho. Nel nome dello Spirito Santo, vi giuro che non sarà mai un pericolo per voi…

All’improvviso, fruga sotto la gonna, dove ha nascosto un coltello da cucina.

VEDOVA (continua) Sarò io ad ammazzarvi! (si lancia sul boss Mafioso) Vito, scappa!

Il ragazzino corre quanto più in fretta gli riesce oltre i cancelli. Quindi vi è uno sparo di lupara. Si volta e vede sua madre che viene scagliata a una distanza di cinque piedi (un metro e mezzo) dallo sparo della lupara. Quindi vede gli uomini spostare la loro attenzione su di lui. Uno gli spara, ma il ragazzo è svelto, e scompare in un boschetto di olivi.

Direi che sì, mostrare tutto, in un romanzo, porta a scrivere una sorta di sceneggiatura priva di indicazioni tecniche come “esterno giorno” e “l’inquadratura cambia”.

Per fare un altro esempio tratto da Il Padrino: ecco come l’autore ci presenta Luca Brasi, temibile killer agli ordini di Vito Corleone.

Luca Brasi non temeva la polizia, non temeva la società, non temeva Dio, non temeva l’inferno, non temeva né amava i suoi simili. Ma aveva eletto, aveva scelto, di temere e amare Don Corleone.

Oltre a essere senza dubbio una presentazione d’impatto, di quelle che ti restano impresse nella mente, provate a immaginare di voler mostrare tutte queste cose: verrebbero fuori quaranta pagine di presentazione, probabilmente. Non è meglio riassumere in questo modo, conservando un certo impatto dovuto sia allo stile che alla sintesi, per poi dare conferma di ognuna di queste cose nel corso della storia, mostrandole quando vi è già necessità di mostrarle?

Io credo che il romanzo debba rifarsi alla tradizione narrativa orale. Quando ero piccolo, mia nonna usava raccontarmi storie, per tenermi buono, per farmi mangiare, insomma, per i motivi più disparati. Quando lei raccontava, veniva mostrato solo ciò che era necessario. I dialoghi, a esempio, (migliori nei romanzi figli del cinema che in quelli vecchio stampo) erano “mostrati”, le scene d’azione, se così si possono definire, altrettanto; il resto invece era “raccontato”. Il fatto che i dialoghi siano mostrati non è scontato: in più di un classico questi vengono raccontati, sintetizzati dal narratore.

Ritornando alle storie di mia nonna, il narratore, o meglio la narratrice, era sempre presente, e non mi riferisco al fatto che fosse lei a parlare.

Alcuni romanzi moderni sono scritti da Tizio Autore, ma Tizio Autore non c’è, perché ha deciso di farsi da parte.

Io credo, in sostanza, che questo sia un male. L’autore, in un romanzo, così come in un racconto, non deve farsi da parte. Deve narrare la storia, senza invadere ma al contempo senza eclissarsi. Un buon romanzo è (in un certo senso) narrazione orale messa per iscritto.

Farsi da parte è una caratteristica del cinema. La storia viene scritta, poi gli attori memorizzano ciò che devono fare e, quando sono pronti, fanno vivere la storia, che viene ripresa dal regista. Il regista decide da dove inquadrare, come deve vivere la storia, ecc. Ma quando la storia vive davanti a lui, non vi si intromette. Si limita a cercare di farla vivere come piace a lui per immortalarla sulla pellicola.

Perché scegliere un surrogato?Ritornando al romanzo, voglio fare un altro esempio: Andrea Camilleri.

Non vi è dubbio che l’autore siciliano sia amato dal grande pubblico e che i suoi romanzi vendano un numero alto di copie. Anche in Camilleri vi è un forte senso dell’oralità nella narrazione. Quando leggiamo un romanzo di Montalbano, ci sembra di sentire una voce familiare che ci racconta una storia. I dialoghi sono sempre mostrati, le (rare) scene d’azione altrettanto, ma per il resto il narratore la fa da padrone.

Un altro esempio ancora.

Un personaggio, stavolta, che ha goduto di un certo successo tra gli amanti del noir autentico: Giorgio Pellegrini di Massimo Carlotto, apparso nei romanzi “Arrivederci amore, ciao” e “Alla fine di un giorno noioso”. In entrambi è Pellegrini a narrarci la storia. I due romanzi appaiono come delle confessioni del personaggio, come se li avesse scritti su carta per liberarsi la coscienza (che non ha, viene da dire conoscendolo) o forse per vantarsi delle sue malefatte, o per il gusto, a volte terribilmente sadico, di dire la verità.

Credo sia arrivato il momento di giungere a una conclusione.

Scrivere un romanzo come se fosse un film, per me, non ha senso, a meno che la storia in questione non sia stata concepita come film e resa sotto forma di romanzo per cause di forza maggiore, quali impedimenti nella realizzazione di una pellicola.

Credo che i romanzieri debbano, anzi, mi ci metto in mezzo…

Credo che noi romanzieri, in erba o meno, dobbiamo guardare all’oralità piuttosto che al cinema. Credo che sia questa la strada migliore per ridare linfa al romanzo: narrare storie in un modo che il formato audiovisivo non può fare. 

Aniello Troiano



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