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Perché un libro diventa un classico?

Da Marcofre

perché un libro diventa un classico

Non minaccio mai a caso, io.
Avevo scritto nel post precedente dedicato ad Alexandre Dumas che forse avrei affrontato l’argomento: come distinguere un prodotto (un libro) che vende, da uno che vende ed è destinato a diventare un classico? Eccomi qua.
Premessa: non credo che sia possibile stabilire delle regole, ma solo indicare qualche strumento che ci può aiutare nella distinzione. E occorre tenere presente che certe opere sono più classiche di altre, anche se hanno qualità tra loro simili. E ce ne sono altre invece che sono state messe in ombra da capolavori, mentre meriterebbero maggiore considerazione.
Il successo tappa la bocca a tutte le obiezioni, vero? È sufficiente sventolare dei grossi numeri di vendite, e qualunque critica viene stroncata, oppure ci si può permettere di ignorarla. Tuttavia sappiamo che nei grossi numeri non c’è la verità. E che a volte nei grossi numeri c’è la verità…

Introspezione psicologica a chi?

Un bel rompicapo che non credo di riuscire a risolvere, ma ci proverò lo stesso.
Quello che vende tanto è spazzatura? Alexandre Dumas, Charles Dickens vendevano a carrettate. Venivano attaccati dai critici perché scrivevano per le persone semplici, e inseguivano le passioni più elementari. Introspezione psicologica? Al diavolo! Le persone non desiderano leggere di queste cose! Vogliono qualcosa in cui identificarsi, e che li diverta, li distragga. Allora ecco il personaggio al quale capita un po’ di tutto, e che grazie alla sorte, alla volontà, a un tesoro colossale, riesce a prevalere sugli eventi avversi e sui propri nemici. O il bambino sfortunato, al quale ne capitano di tutti i colori ma alla fine tutto, o quasi, si risolve, e tutti vivono borghesemente felici e contenti.
Questa è letteratura, signore e signori, e alla fine resta il solito interrogativo: come distinguere la “robaccia” che vende, da quella che vende, ma non è robaccia?

Una luce in fondo al tunnel

La soluzione è nel ricorrere a quanto affermava la scrittrice statunitense Flannery O’Connor che milioni di copie non le vendeva di certo, ma vendeva. Probabilmente, resta quello che è arte, e arte è qualcosa di valore ed efficace. Quindi forse riusciamo a venirne a capo (forse), dicendo che vende tutto quello che è efficace (quindi riesce a comunicare, cioè “raggiunge” il lettore). Mentre se manca il valore, tra 50 anni quello che vende adesso, ma è privo di questa qualità, scompare.
Come? Che roba è il valore?
Come diavolo riesco a definire se una storia è di valore? La faccenda invece di semplificarsi, si complica. Certo, lo so che i gusti sono gusti: a me piace Dostoevskij mentre tu lo detesti perché per dire una cosa scrive un capitolo quando basterebbe un paragrafo. A me non piace “Il giovane Holden”. Quindi ci lasciamo così, a guardarci in cagnesco, ognuno sulla propria riva del fiume, a minacciare l’altro di legnate?
Peace & Love, fratello! Sei una sorella? Peace & Love anche a te!

Una possibile definizione di valore

In realtà mi pare di aver già parlato in passato di che cosa sia il “valore”, quale sia il suo senso.
Immagino che una storia possa essere di valore quando dimostra (o ricorda al lettore) che l’essere umano ha una complessità, e una dignità, di fronte alle quali si deve compiere una scelta fondamentale. O usare l’odio, o la compassione. Mi rendo conto che non è granché, ma non puoi certo pretendere grandi risposte, anche perché di solito le grandi risposte o annoiano, o schiacciano.
Io dico che l’inferno esiste, ed è fatto di un gruppo di diavoli che leggono per l’eternità “Il giovane Holden” ai dannati; tuttavia so che tra 70 anni probabilmente sarà letto anche su questa Terra, e sarà ancora apprezzato perché non solo è scritto in una lingua efficace. Ma contiene valore, i suoi personaggi non sono pupazzi che si muovono in una realtà fatta di luoghi comuni e dialoghi da manicomio.


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