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Perfect storm, il 2014 dell’Afghanistan

Creato il 04 aprile 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

afghanistan-elezioni

di Davide Borsani

Il 2014 è l’anno della ‘tempesta perfetta’ per Kabul. Due sono gli eventi nei prossimi otto mesi che determineranno il futuro dell’Afghanistan. Il primo è l’imminente elezione presidenziale, che proclamerà un nuovo Capo di Stato a distanza di oltre un decennio dalla nomina ad opera della comunità internazionale di Hamid Karzai, un incarico confermatogli (non in modo del tutto trasparente) dagli afghani nel 2004 e nel 2009. Il secondo è la conclusione della missione internazionale di peace enforcement denominata International Security Assistance Force (ISAF), che dal 2002 ha provato a garantire, pur con innumerevoli difficoltà, la stabilità di un territorio dilaniato da decenni di conflitti, non da ultimo la guerra civile degli anni Novanta.

L’era di Karzai è ufficialmente terminata. Dopo aver guidato il Paese per due mandati, la Costituzione gli ha impedito di presentarsi per un terzo. La prima tornata di elezioni del 5 aprile, cui probabilmente seguirà il ballottaggio, indicherà il suo successore, che verrà eletto tra una lista di otto candidati, tutti di etnia Pashtun, preliminarmente validati dalla Independent Election Commission nazionale. Tra gli aspiranti Presidenti, che hanno già avuto un ruolo più o meno significativo nelle dinamiche afghane recenti, vi sono il favorito Ashraf Ghani Ahmadzai, tecnocrate ed ex Ministro delle Finanze; Abdullah Abdullah (mezzo tajiko), già avversario di Karzai nel 2009 e con forti legami con i capi tribali del nord; Zalmai Rassoul, già Ministro degli Esteri e supportato dal fratello dell’attuale Presidente; Abdul Rab Rassoul Sayyaf, vicino ad al-Qaeda (ma non sostenitore dei Talebani), che può contare sul sostegno del celebre war lord di Herat, Ismail Khan. Se da un lato – e questo è l’auspicio – le elezioni dovrebbero produrre un leader legittimo in grado di rappresentare il Paese, dall’altro è necessario fare i conti con la realtà. Non a caso l’International Crisis Group si è recentemente dichiarato molto pessimista al riguardo, constatando che «prospects for clean elections» sono scarse, ed è quindi molto alta la possibilità che «the 2014 elections will be plagued by massive fraud».

Nessun candidato dei Talebani correrà per la vittoria elettorale. Il Mullah Omar, guida di un movimento che comunque presenta crepe al suo interno, ha annunciato che «As to the deceiving drama under the name of elections 2014, our pious people will not tire themselves out, nor will they participate in it». Il motivo è semplice: «Our pious and Mujahid people know that selection, de facto, takes place in Washington. These nominal rulers are not elected through the ballots of the people». Al contrario, non è da escludere che i Talebani proveranno ad ostacolare l’accesso alle urne da parte dei votanti. È d’altro canto ovvio che, senza il coinvolgimento nelle dinamiche di potere di una fazione così influente per il Paese (in particolare a sud), le prospettive di una stabilità nazionale si facciano sempre più fosche. Le informazioni recentemente trapelate a proposito non dipingono un quadro ottimistico. Molti afghani hanno dichiarato apertamente di temere che, nei prossimi mesi, i Talebani possano lanciare un’aperta offensiva a Kabul per (ri)ottenere il controllo, più o meno effettivo, dell’intero Afghanistan. Le etnie delle aree settentrionali, che già in passato avevano costituito l’Alleanza del Nord per contestare l’autorità talebana, si stanno riorganizzando in milizie per rispondere all’ipotetico attacco.

La speranza principale, per scongiurare un nuovo conflitto civile, sembra dunque risiedere nei colloqui di pace che le autorità afghane stanno conducendo con alcuni leader talebani. Ad ora, però, i progressi sono insufficienti a causa soprattutto della difficile accettazione delle condizioni preliminari presentate dalla rispettiva controparte. Le richieste del governo sono chiare: rinunciare all’uso della violenza, accettare la Costituzione afghana, rompere i legami con al-Qaeda. Altrettanto lo sono quelle talebane: rilasciare tutti i ‘fratelli’ prigionieri e spingere le truppe occidentali al completo ritiro dopo il 2014.

Uno dei maggiori, se non il principale, nodo gordiano è dunque il ruolo nell’Afghanistan post-2014 dell’Occidente, in particolare degli Stati Uniti, dopo la conclusione di ISAF. Washington e i suoi alleati non sono certo ansiosi di ricoprire un ruolo di primo piano in un Paese che, per oltre dieci anni, ha visto drenare molte risorse per un end state non sempre così identificabile dalle opinioni pubbliche e, talvolta, dagli stessi governi. Nello scorso ottobre, Karzai e Barack Obama avevano trovato un accordo preliminare per lasciare boots on the ground un limitato contingente militare americano, protetto da immunità giurisdizionale, con funzioni di training & mentoring (in ciò affiancato dagli alleati NATO) e di lotta al terrorismo tramite l’uso delle Forze speciali. In realtà tale accordo, pur approvato dalla Loya Jirga, non è mai stato firmato da Karzai, che, nonostante le proteste degli Stati Uniti, ha deciso di trasferire interamente la responsabilità al suo successore. Il risvolto principale è stato che i colloqui tra autorità afghane e Talebani continuassero, almeno nella forma, poiché nella sostanza l’incertezza sul raggiungimento dell’accordo con Washington ha generato più dubbi che soluzioni.

Mantenendo il focus sulla dimensione della sicurezza, la domanda da porsi è quindi se, allo stato delle cose, le Forze armate afghane siano in grado di sopperire all’ipotetica assenza di una qualsivoglia presenza occidentale post-ISAF. A livello quantitativo, l’Afghan National Army è giunto a quota 185mila soldati, poco al di sotto della soglia dei 195mila fissata nel 2012 al summit NATO di Chicago. Anche l’Afghan National Police, composta da 152mila uomini, si avvicina all’obiettivo indicato dei 157mila effettivi. Il problema, però, resta la qualità. Al di là dei dubbi sulla capacità operativa dell’ANA su scala nazionale, che deve ancora essere messa davvero alla prova, le percentuali di assenteismo, di corruzione e di dipendenza da droghe fin qui manifestate a livello individuale, sommate ai timori sulla reale lealtà dei militari afghani all’autorità centrale, fanno dubitare delle capacità dell’ANA di reggere l’eventuale urto di una nuova offensiva talebana.

In attesa di conoscere l’esito dell’accordo bilaterale tra Washington e Kabul, gli Stati Uniti stanno quindi vagliando quattro opzioni per il loro futuro ruolo in Afghanistan. La prima, sostenuta dai comandanti militari, prevede il mantenimento di 10mila truppe alle basi di Kabul, Kandahar, Bagram e Jalalabad, libere di muoversi per il Paese. La seconda è più contenuta e limita il numero di soldati a meno di 10mila nelle sole basi di Kabul e Bagram. La terza, che combina un maggiore utilizzo di droni a fronte di una ridotta quantità di soldati, ipotizza il dispiegamento di 3mila uomini stabili a Kabul e Bagram. La quarta è la cosiddetta ‘opzione zero’, ossia il ritiro totale. Molti esperti hanno evidenziato che senza una presenza militare occidentale in Afghanistan sulla scia del ‘modello Iraq’ si assisterebbe quasi inevitabilmente ad un incremento delle violenze, degli attentanti e quindi dell’instabilità del Paese, da cui trarrebbero beneficio le fazioni più radicali operanti ancora oggi sul territorio, come (seppur in quantità ridotta) al-Qaeda. Il Segretario di Stato John Kerry, che si è infine dovuto allineare all’intransigenza di Karzai, si è però dimostrato fiducioso che il prossimo Presidente afghano apporrà la propria firma sull’accordo di sicurezza bilaterale. A ciò dovrebbe seguire immediatamente un separato deal tra la NATO e Kabul che regoli la presenza e le funzioni delle truppe dell’Alleanza nell’ambito della già pianificata missione Resolute Support. L’esito della prima tornata delle imminenti elezioni, quindi, farà luce anzitutto su questo punto.

Di certo vi è che, qualsiasi sarà l’esito della ‘tempesta perfetta’, l’Occidente difficilmente potrà relegare ancora una volta l’Afghanistan ai margini dei propri interessi strategici.

* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)

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Photo credits: Wikimedia Commons

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