Dunque il petrolio sempre più protagonista del palcoscenico internazionale, grazie ai prezzi che continuano a scendere. Di quasi il 40% negli ultimi 5 mesi: dagli oltre 105 dollari al barile di metà giugno ai 66 dollari, di oggi. E non è finita qui. Uno dei maggiori esperti internazionali di petrolio, Leonardo Maugeri, ritiene possibile che il barile possa scendere a 50 dollari, mentre non mancano gli esperti che ipotizzano cifre inferiori, fino a 35 dollari al barile entro il 2015, se l'Opec non deciderà di dare un taglio alla produzione.
Considerato che negli ultimi tre anni il prezzo medio del barile ha veleggiato stabilmente sopra i 100 dollari, si direbbe proprio una gran bella notizia per i Paesi fortemente dipendenti dalle importazioni di petrolio. O no?
Pertrolio giù: buone notizie per i Paesi importatori, per ora
Effettivamente il minor costo del petrolio sul mercato internazionale porta benefici immediati alle economie dipendenti dalle importazioni, in modo più che proporzionale alla riduzione dei prezzi. È il caso dei Paesi europei, del Giappone, ma anche della Cina e di una nutrita schiera di Paesi in via di sviluppo. E non solo per il riflesso immediato sulla bolletta energetica.
Nel caso dell'Italia, per esempio, su una fattura energetica di oltre 56 miliardi di euro nel 2012 l'esborso per il petrolio è stato di circa 34 miliardi di euro.
Se il costo del barile scende, la spesa (a parità di quantitativi importati) scende in modo proporzionale, ma i benefici che ne derivano si sommano, perchè va considerato anche il contraccolpo positivo che si registra sui prezzi del gas, i maggiori margini per le raffinerie e molte altre industrie, la riduzione (tasse permettendo) di prodotti petroliferi e carburanti per gli automobilisti, minori costi di trasporto delle merci e quindi beni di consumo più economici e molto altro.
A tutti gli effetti si tratta di una boccata d'ossigeno formidabile per la ripresa dei consumi e per l'economica nazionale.
Per contro, ci sono numerosi motivi che dovrebbero far sperare in una discesa dei prezzi contenuta entro un limite (intorno a 85 dollari?) che al momento è stato abbondantemente superato.
Perchè sarebbe meglio se i prezzi del petrolio non scendessero troppo
È bene ricordare che i prezzi del petrolio in genere (non sempre, ma il più delle volte) scendono o salgono in base alle cosiddette leggi di mercato. Cioè sulla base di progetti, pianificazioni, scelte o necessità politiche e industriali che vengono studiate, decise e finanziate con cura, ma che poi si intrecciano tra di loro e interagiscono con le scelte dei consumatori dando alla fine risultati imprevedibili.
Tuttavia nel nostro caso tutti concordano sul fatto che l'Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) avrebbe potuto (e potrebbe) sostenere prezzi del barile stabilmente più alti riducendo la produzione. Più precisamente alcuni Paesi membri (soprattutto Venezuela, Equador, Nigeria e Iraq) hanno con forza chiesto di farlo, ma si sono scontrati con la consapevole volontà dell'Arabia Saudita di lasciar crollare i prezzi. Perché?
Perché i Sauditi sanno benissimo che, con il prezzo del barile così basso, l'economia di mercato torna a puntare sul petrolio per massimizzare i benefici finanziari a breve. E peccato se nel frattempo vengono ridimensionati e rinviati altri obiettivi energetici (e ambientali) di interesse generale, programmi di sviluppo di fonti rinnovabili, progetti di ricerca su tecnologie e combustibili alternativi al petrolio.
Nell'immediato avranno un drastico ridimensionamento i programmi di esplorazione e sviluppo delle risorse petrolifere situate in zone a rischio o costose. È il caso di quelle Brasiliane, della zona artica russa, del Mare del Nord e soprattutto (per gli interessi dell'Europa, che ci punta per accrescere la propria sicurezza energetica) dell' off-shore artico norvegese. Con il barile sotto gli 80 dollari nessuna di queste risorse resta di interesse economico. Per non parlare dei progetti di sviluppo delle sabbie bituminose del Canada, che sono economicamente sostenibili solo con il greggio sopra i 100 dollari. Ma anche la competitività di una quota del petrolio non convenzionale americano ( shale oil) viene meno, e cade quasi del tutto sotto i 60 dollari.
In pratica c'è già chi prevede un calo del 50% degli investimenti in esplorazione e del 10% nello sviluppo di giacimenti già scoperti.
La situazione che si sta delineando mette in ginocchio la Russia (secondo esportatore mondiale di petrolio e maggiore concorrente dell'Arabia Saudita) e anche molti Paesi dell'Opec, che rischiano la bancarotta e avranno difficoltà a fare nuovi investimenti per sostenere la capacità produttiva attuale e per mettere in produzione nuove risorse.
Per il Venezuela, l'Equador, la Nigeria, la Libia, l'Angola, l'Iraq e anche l'Iran il ribasso del greggio ha l'effetto di rivalutare i debiti pubblici e di svalutare il valore delle compagnie petrolifere. Il che costituisce sicuramente un indebolimento complessivo dell'Opec, ma anche un forte rafforzamento dell'Arabia Saudita (e degli Emirati Arabi che la spalleggiano) sia dentro l'Opec, sia a livello internazionale.
In conclusione, niente di nuovo sotto il sole: la mossa dell'Arabia è già stata vista e rivista, e sempre ha ottenuto i suoi prevedibili e inevitabili effetti.
Godiamoci pure il ribasso dei prezzi, ma consapevoli che in un futuro non molto lontano ci ritroveremo di nuovo con forte domanda di prodotti petroliferi, scarsa offerta e, quindi, costi ancora più alti di quelli dei mesi scorsi. Cioè con una nuova crisi, basata su presupposti un po' peggiori di quelli della crisi precedente.
[ Valter Cirillo]