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Ma andiamo ai fatti - e i fatti sono noti un po' a tutti. L'avvocato Andrew Beckett (Tom Hanks) lavorava per uno dei più prestigiosi e potenti uffici legali di Philadelphia, quando in seguito a un incidente viene licenziato. Andrew è sieropositivo, ma ufficialmente nel suo studio non lo sa nessuno, e va da sé che Andrew è omosessuale (l'associazione di idee, allora, era automatica). Ma la ragione addotta dai suoi datori di lavoro ed ex colleghi è che l'avvocato avrebbe messo fuori posto una cartella importantissima e rischiato così di far perdere allo studio un incarico molto prestigioso (e ancor più lucroso). Andrew decide di assoldare a sua volta un avvocato, Joe Miller (Denzel Washington), e far causa allo studio di Charles Wheeler (Jason Robards) & co. Naturalmente tutta la sua storia viene fuori durante il processo, compreso il rapporto occasionale in un cinema porno che l'uomo ebbe all'inizio della sua relazione con l'attuale compagno, Miguel (Antonio Banderas). Un processo per reinserimento lavorativo si trasforma in un evento mediatico sull'omofobia e i diritti dei gay (la formula corrente, molto più aperta, LGBT non era ancora in uso).
Ora, va detto che Andrew vive in un contesto familiare fiabesco: non solo la sua omosessualità non è un problema nella sua famiglia, ma viene "normalizzato" perfino l'AIDS, come accade quando si vuole guardare la persona e non il cannocchiale ideologico entro cui si restringe il mondo. Quello di Andrew Beckett non è in nessun caso un outing, non ci sono traumi se non l'evento concreto della malattia conclamata e la perdita del posto di lavoro. La struttura narrativa è, in tutto e per tutto, quella del legal movie in contesto di common law (e d'altra parte non è difficile capire come mai nei paesi di civil law la dinamica del processo non funzioni, legata come risulta alla codicistica vigente più che ai valori etici e sociali che tanto ci appassionano). Da questo punto di vista, il film funziona bene, ma a noi risulta ben strano che si precipiti così rapidamente ai diritti dei gay da una causa orientata in ben altro modo. A noi, forse, oggi appare pretestuoso.
Ma è proprio questo il punto: ci appare pretestuoso sul versante antitetico rispetto a quello propugnato dalla difesa. Lo studio Wheeler & co. ha interesse a difendere la sua versione dei fatti, che vorrebbe Andrew Beckett un avvocato poco più che mediocre e comunque inadeguato all'investimento stanziato negli anni su di lui. Certo, non ci vuol nulla a sbaragliare equivoci di sorta: l'omosessualità, più ancora che la malattia in sé, provoca negli ex colleghi una nausea più volte ribadita anche sul piano lessicale. Però quelli erano tempi, appunto, nei quali questo disgusto poteva venir fuori facilmente e senza troppo sforzo legale, tanto che un intero processo e un impegno produttivo del genere sembra spropositato rispetto al palese rifiuto dei gay. Oggi gli omofobi si sono attrezzati con argomentazioni ideologiche molto più sottili e con una più capillare strategia motivazionale, facendo appello a ragioni di ordine diverso, non di rado insidiosamente simili, nella forma e nelle manifestazioni, a quelle degli attivisti omosessuali di allora (libertà di pensiero, costrizione sociale da parte di gruppi di potere ecc.).
Certo, esiste il principio del diritto. E il principio del diritto, nella sua vaghezza, non prevedeva la possibilità di certe applicazioni. Voglio dire: l'articolo 3 della nostra costituzione non fa riferimento alla differenza sessuale perché allora non era un problema e non passava neanche per la testa che lo potesse costituire, tanto indietro si era, così come a nessuno sarebbe venuto in mente di specificare il sesso dei coniugi nell'articolo 29. All'improvviso principi simili sono diventati di attualità proprio perché aprono - spesso involontariamente - a nuove prospettive (e mi sembra ovvio che il problema ricade sui revisionisti che vogliono restringere gli articoli in questione, piuttosto che su chi trova in quegli articoli un'apertura per le nuove esigenze sociali).
Però, in Philadelphia di Jonathan Demme succede ancora un'altra cosa, ed è una cosa molto più importante. Succede, cioè, che a difendere l'omosessuale sieropositivo è l'avvocato di colore Joe Miller, che appare come un rivenditore di diritto in televisione, forse erede di quelle famiglie, come i Jefferson prima e i Robinson dopo, che hanno imposto la presenza attiva a diverso livello dei neri nel tessuto sociale americano. Joe Miller, in quanto afroamericano, esce dallo schermo e diventa persona reale, si batte - nonostante le iniziali difficoltà (e con più forza proprio in virtù di queste difficoltà) - per i diritti di un'altra minoranza o, ancor meglio, per il rinforzo di certi principi civili di garanzia della persona americana. Da questo punto di vista - a prescindere dai meriti artistici (è un bel film!) - Philadelphia è un capitolo molto importante del modo in cui gli U.S.A. si rappresentano di fronte a se stessi e al mondo in tema di libertà e autodeterminazione.
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