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Piccola editoria: a volte c’è da discutere

Creato il 30 gennaio 2012 da Queenseptienna @queenseptienna

Chi non ha mai gettato nemmeno un’occhiata nel vero e proprio mondo dell’editoria non ha nessuna conoscenza per rendersi conto dei numerosi meccanismi che muovono questo strano macrocosmo che certe volte sembra più caotico del Big Bang.
Proviamo ad entrare in una qualsiasi libreria del centro di una città: cosa troviamo?
Biografie più o meno autorizzate dei defunti SuperSic e Steve Jobs, l’ultimo romanzo fantasy (?) di Licia Troisi, l’ennesimo surrogato insipido e lagnoso che parla di vampiri fascinosi che seducono liceali illibate, qualche giallo svedese che fa sofisticato, e gli intramontabili classici.Piccola editoria. A volte c’è da discutere
Diciamocelo: spazzatura per la maggior parte.
Da un lato abbiamo questo – consumismo di massa e operette di bassa lega che fanno soldi per merito di una società improntata su scarsi valori, sui media e sulle mode passeggere, che a loro volta alimentano questo circolo vizioso – e dall’altro abbiamo una realtà oscurata, di cui fa parte una grossa fetta d’editoria bistrattata, che però forse può rivelarsi un rifugio sicuro per i lettori veri.
Forse.

Forse, perché dire che le piccole case editrici (NON a pagamento, s’intende) – quelle di cui poco si sente parlare, quelle che non si trovano al primo colpo in una qualsiasi Feltrinelli, e quelle che non si trovano nemmeno al secondo – sono tutte sinonimo di qualità, è un azzardo bello e buono.
Su molti dei loro siti si trovano messaggi di benvenuto scritti a caratteri cubitali, che recitano che la loro casa editrice persegue una politica basata sulla qualità delle opere che prende in considerazione, cercando materiale che si discosti dal mercato e che faccia la differenza, il tutto sempre reiterato con parole diverse, anche se il concetto non cambia.
Con queste premesse un lettore che magari ha appena acquistato un libro di questo misconosciuto editore potrebbe essere rassicurato, arrendendosi al fatto che ha tra le sue mani un piccolo gioiello.
Sì. Ma anche no.

Già, perché ritrovarsi con un romanzetto piatto, una storia d’amore emozionante come la migrazione delle lumache, un editing che forse un branco di scimmie in possesso di una macchina da scrivere a cui mancano le lettere A, G, O, R avrebbe potuto fare sicuramente meglio, i dubbi cominciano ad affiorare.
Il dubbio che forse la qualità tanto promessa non rispecchi esattamente il risultato, il dubbio che forse i soldi spesi per un librettino simile avrebbero potuto essere investiti meglio, magari comprando un romanzo di Clive Cussler, alto cinque volte di più, con copertina rigida e sovraccoperta, e senza provare quella viscerale sensazione di essere stati truffati.

Quando ho mosso i miei primi passi nell’editoria anch’io pensavo che i grandi nomi fossero un male da rifuggire come la peste, e credevo che invece le case editrici più ridotte e familiari fossero accoglienti, affidabili e protettive.
Non esattamente. Sia chiaro, la mia non è altro che una generalizzazione, è ovvio che alcune di loro hanno quello sprint, quella carica che le rende fantastiche nonostante siano poco conosciute, mi sto limitando a citare i difetti più rilevanti, palesi che si possono riscontrare in questi casi, quando si nuota in acqua che fino a un anno prima parevano tanto tranquille.

Piccola editoria. A volte c’è da discutere
Prezzi.
Come già citato qualche riga più su, alcune di queste piccole CE sfoggiano dei prezzi che definire allucinanti è un eufemismo. Il costo varia a seconda del numero di pagine, quindi immaginatevi un graforroico, o semplicemente un appassionato di aggettivi e sostantivi, che si ritroverà pubblicato un romanzo dal prezzo esorbitante a dir poco.
Ora, comprendo che, essendo poche le disponibilità finanziarie, le tirature siano limitate, e che pertanto le stamperie non adottino sconti esagerati, ma alla speculazione c’è un limite.
Prendiamo un fantasy elaborato, una protagonista avventurosa e indomita che non ha paura di nulla, in grado di far innamorare di sé persino il tenebroso cavaliere nemico (e se ve lo state chiedendo sì, sto facendo ironia), il tutto – tra interlinea, bordi bassi e alti e a sinistra e destra, e un carattere abbastanza largo da essere leggibile -richiederà all’incirca quattro centinaia di pagine.
Quattrocento pagine che verrebbero a costare una trentina di euro.
Onestamente, alzi la mano chi comprerebbe un fantasy di un esordiente totalmente sconosciuto al mondo letterario, edito da una casa editrice ancor meno nota, che costa la bellezza di trenta deca.
Io lo lascerei in bella mostra sullo scaffale e passerei oltre senza nemmeno pensarci due volte.
Mi domando se davvero il valore delle stampe sia così esorbitante. Siccome le percentuali che riceve l’autore sono irrisorie e non bastano nemmeno per eguagliare lo stipendio medio di un mese, i soldi che l’editore guadagna dove finiscono?
Una casa editrice come pretende di essere presa sul serio e di farsi conoscere se già ad un primo approccio il lettore viene semplicemente terrorizzato non appena vede il prezzo?

Editing.
Con la parola editing non si intende soltanto la correzione dei refusi – sfoltire un po’ le virgole dove ce ne sono troppe, correggere gli errori di distrazione, allungare o accorciare un periodo per rinfrescare un po’ la scorrevolezza della lettura – ma è un processo complessivo che riguarda ogni aspetto dell’opera che le CE prendono in considerazione. Che dovrebbero.
Attraverso l’editing si controlla la solidità della trama – che sia plausibile, coerente e che il finale regga – la costruzione dei personaggi – che non siano solo dei burattini privi di carattere, che non si muovano senza scopo o che dicano cose senza alcun senso – la piacevolezza dell’opera stessa – che non contenga un numero infinito di parolacce gettate a random, o che la lettura non sia continuamente spezzata da fastidiosi intermezzi scollegati dalla storia – insomma, l’editing ha il compito di rendere leggibile un’opera.
Una CE con che coraggio si aspetta di emergere se la sua qualità d’editing è pari al tema di una quattordicenne che in tutta la sua esistenza ha letto soltanto Twilight e derivati? Cosa le fa credere che i lettori apprezzino la noncuranza, l’ignorare errori madornali, coniugazioni dei verbi sbagliate, estinzione totale dei congiuntivi, imbarazzanti forme gergali o dialettali?
Perché io, sfogliando un libro di narrativa di una normalissima (banalissima aggiungerei) storia d’amore, mi sono ritrovata a leggere tra i pensieri della protagonista un “e mo’?”?!
Sono d’accordo con la conservazione del dialetto, ma la mia aspettativa non era quella di trovarlo in un libro in presunta lingua italiana.

Piccola editoria. A volte c’è da discutere

Spesso mi sono domandata se alcune CE facciano uso di editor o se invece si affidino alla buona fede dell’autore che promette loro attendibilità, fluidità, correttezza e via dicendo, oppure se costoro esistano davvero ma la loro attenzione sia attirata più dal Solitario del pc che dal lavoro.
Un altro dei misteri irrisolti dell’universo infinito dell’editoria italiana.

Sarcasmo e rimostranze a parte, sono cosciente del fatto che una CE sia sempre e comunque una fabbrica, e che il suo fine primario sia quello di guadagnare, ma un minimo di previsioni a lungo termine non guasterebbe poi molto.
Se la suddetta CE pubblicasse a costi ragionevoli e alla portata più o meno di tutti – tenendo conto anche del target a cui l’opera è rivolta – con contenuti globali accattivanti e leggibili, ortografia e grammatica corrette, avrebbe molte più possibilità di diffondersi: di essere comprata, che il passaparola viaggi di persona in persona, che il volume acquisti sempre più visibilità, e quindi anche le altre pubblicazioni edite dalla stessa verrebbero automaticamente prese in considerazione dal pubblico.
Non mi sembrava così difficile da capire.


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