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piccolo (mother) blues

Da Suddegenere

Mia nonna mi racconta che, dopo aver partorito il quarto (e ultimo) figlio, appena rientrata a casa dall’ospedale si è seduta sulla poltrona rossa del nonno ed è rimasta lì, immobile, per un tempo molto lungo. Non sapeva spiegarsi  quel  sentimento di totale <<indifferenza>>, anche nei confronti del nuovo nato, ma non  avvertiva neppure l’urgenza di spiegarselo. Possibile che non se ne accorgesse nessuno che stavi male – le chiedo – Le sorelle, le amiche, il nonno!? << No – mi dice -non se ne accorgeva nessuno >> .  << L’unica che ha fatto qualcosa è stata tua madre (che all’epoca aveva una decina d’anni). Prendeva il bambino, lo portava nella sua stanza  e mentre studiava lo faceva stare buono muovendo la culletta con il piede. Se non ci fosse stata lei, non so il piccolo come avrebbe fatto, io mi ero completamente chiusa e basta.>>. Interpello mamma che conferma: << Tornavo a casa da scuola – mi dice- e trovavo tua nonna accasciata sulla poltrona. Io non sapevo come fare per aiutarla, se non prendere il bimbo e cercare di occuparmene. Tutti si comportavano come se nulla fosse. Ma era ovvio che nulla era a posto. Addebbitavano lo stato di tua nonna alla sua stanchezza, non lo prendevano sul serio.>> Del resto, è meno oneroso far finta che certi problemi non esistano, lasciare che si risolvano “da soli”.

<< Ne sono uscita con le mie sole forze >> chiude il discorso la nonna.

Immaginare che una soluzione alla solitudine delle mamme depresse si possa individuare in un ritorno alle <<case “di cortile”>>, come suggerisce Concita de Gregorio citando un religioso, rappresenta un falso  storico e ideologico (così come è un diffuso e grossolano errore chiamare Medea le madri che uccidono i loro figli, visto che Medea non ha ucciso nessuno). Le case ” di cortile” non sono mai state un deterrente per le violenze domestiche, la vicinanza fisica e la condivisione materiale di spazi di questo tipo non hanno mai aiutato le donne ad allontanarsi dalle violenze, e neanche a curare altre profonde ferite e solitudini.  Penso,  piuttosto, che sia  un’idea  romantica e pittoresca quella de “le madri e le nonne che uscivano per strada portando da casa la sedia di paglia e sedevano a osservare i figli e i nipoti giocare, mentre magari spettegolavano dettando legge su come le più giovani dovessero comportarsi (lo conosco bene il paese, io). Mi accontenterei di non avere costantemente sotto gli occhi articoli di giornale misogini e di poter usufruire (o quantomeno prendere atto che esiste) un’ assistenza sanitaria pubblica adeguata ad una situazione tanto delicata quanto lo può essere per una donna la nascita di un figlio/a, anche dal punto di vista dell’equilibrio psico-fisico . Del resto, siamo in Italia, “patria” di proposte illuminate per affrontare e risolvere i problemi sociali. Chi si ricorda che, pochissimi anni fa, per “prevenire”/”curare” la depressione post partum c’era chi proponeva un bel tso e chi invece un risolutivo elettroshok?. Ricordo con orrore quando lessi la notizia e mi vennero in mente le parole di Esther ne la campana di vetro che, descrivendo la sua esperienza di “trattamento”, pensa <<Mi chiedevo quale orribile colpa avessi mai commesso>>. 

Mia mamma ( porella!) si è dovuta occupare di un’altra donna in depressione post partum, ossia della figlia. Riesco ancora a vedere un’immagine di me, qualche giorno dopo un parto difficile, mentre cerco di sorbire una brodino e lo innaffio di calde lacrime, con mia cugina  seduta  di fronte  che mi fissa sbalordita ma non riesce a spiccicare una parola, come pietrificata. Riesco a sentire il tono serio e schietto con cui   mia madre mi annuncia << Guarda che sei in depressione post partum. Non ti preoccupare troppo (e chi lo era!) ma non ti ci crogiolare, altrimenti non ne vieni più fuori e sono guai>>. Io che amo il sole ero arrivata ad odiare la luce del giorno e a temere quella della notte.  Le amiche chiamavano in continuazione e io non rispondevo, i parenti invece glissavano. Volevo stare sola. Non c’è bisogno che racconti oltre, non direi nulla di più di quanto molte di noi non sappiano già. Ne venni fuori, con il solo aiuto di mamma e il sostegno pratico di Piero, che tornava la sera a casa e si occupava del bucato del bambino e di tutto il resto, ma anche con lui non se ne fece parola fino a qualche anno dopo.

Un tabù sta certamente nel non voler riconoscere   l’infelicità materna come qualcosa di possibile e “non scandaloso”. Le mamme sono per definizione tutte felici, altrimenti sono “solo stanche” cosicchè a quelle infelici non resta che pensare di essere un unicum disperato . 

Più in là di così, in Italia, non si riesce ad andare. Del resto, la misoginia non è solo radicata, ma “tira” da millenni.

 foto di Giovanna Vingelli

foto di giovanna vingelli
[Non c'è cosa più immonda che inventarsi un nemico e fare del vittimismo spiccio, con rancore]


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