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Pierfranco Bruni annuncia le celebrazione per i 70 anni dalla morte di Ada Negri. Una rilettura tra linguaggio e antropologia
Da LalunaeildragoC’è una tradizione che si fa innovazione linguistica nel Novecento letterario italiano. Un esempio è il linguaggio poetico di Ada Negri. Ada Negri è stata una poetessa che ha cercato linguisticamente di rinnovarsi nella tradizione. Veniva dalla tradizione ottocentesca ma la sua coordinazione poetica faceva costantemente i conti con una parola che aveva già superato il reducismo manzoniano ma restava profondamente ancorata a quella tradizione tardo romantica di cui si avvertiranno gli echi (e le strutture ritmiche) in molti altri poeti a lei contemporanei. Forse si potrebbe affermare che è l’ultima poetessa di un Ottocento che si era già aperto ad un verso più libero e meno definito aprioristicamente.
Era nata nel 1870 e morta nel 1945. Uno dei suoi primi libri, “Fatalità”, risale al 1892. L’ultimo libro di poesia (e non mi riferisco a quelli postumi) è del 1936, “Il dono”, mentre al 1939 appartiene un testo di narrativa, “Erba sul sagrato”. (Ora inPoesie negli Oscar Mondatori, a cura di Silvio Raffo). Indubbiamente si tratta di una poetessa di mezzo intenso in termini generazionali ma anche epocali sul piano di una registrazione storico – poetica. Ma fondamentalmente resta una voce chiarificatrice e d’altronde molto fedele alla visione di una poesia in cui echi romantici prima e crepuscolari e decadenti successivamente sono ben evidenti. Si è più volte detto che Ada Negri è stata un poetessa popolare e amata nel contesto del primo Novecento e subito dopo dimenticata. Ma non mi strapperei le vesti per questa attuale impopolarità. D’altronde il suo verso non poteva reggere al confronto con quella rottura di stilemi che si sono consumati nell’arco del secondo Novecento. Già è un fatto importante che abbia avuto un suo ruolo in una temperie contrassegnata fortemente dalla presenza di una poesia ermetica significativa e condizionante. Insistere oggi sulla sua impopolarità è un gioco a perdere. Ada Negri è una poetessa che ha contrassegnato un percorso storico della letteratura del Novecento. Resta chiaramente nel Novecento letterario e diventa sempre più una testimonianza imponente. Ma se vogliamo dirla tutto non potremmo fare a meno di sottolineare che la sua impostazione poetica (lirica e linguistica) è stata modello di riferimento per alcuni poeti contemporanei. Penso a Pisolini, penso a Caproni, penso a quella poesia dell’attesa che ha trovato riferimento nella lirica religiosa. Oltre a tali intrecci Ada Negri andrebbe ricontestualizzata in un processo letterario e critico che accoglie la tradizione del passaggio tra Ottocento e Novecento. Ci sono versi di una sublimazione estrema che dettano già il mosaico di un Novecento che per la sua gran parte dei primi quarant’anni ha dovuto fare i conti non solo con D’Annunzio e Pascoli ma anche con Carducci e Manzoni. Non va trascurato e non si tratta neppure di un particolare eliminabile nel quadro della poesia del Novecento. Il tema della nostalgia (ovvero direi il tema forte del tempo) è dominante perché dentro questo centro convivono due punti esistenziali che trovano in letteratura una chiave di lettura e di interpretazione esigente. Mi riferisco al sogno e alla morte. Il tracciato onirico accompagna tutta l’opera di Ada Negri come la riflessione sulla morte. “E d’inseguirti io non mi stanco mai,/ o sogno ammaliator de la mia vita:/tutto già mi prendesti e tutto avrai,/la giovinezza ardita,//i tumulti del sangue e i desideri,/l’ansie, le veglie, le preci, le lotte,/il battagliar dei vividi pensieri/che riddan ne la notte,//tutto ciò che sorride e che non mente,/tutto ciò che s’eleva e non dispera,/e de l’ingegno mio triste e fremente/la luce e la bufera” (da “Il sogno” in Tempeste, 1895). Una poesia che ha una sua robustezza e si incardina in alcuni concetti chiavi che pongono in essere un intreccio sostanziale sul piano dell’analisi critica. Mi riferisco al dato etico e a quello estetico. La filosofia non entra nella poesia. Ma già di per sé in Ada Negri filosofia e poesia con una connotazione problematica. Tre cardini epistemologici si recuperano nell’accento poetico: il vuoto, il pianto, il perdono. Ma sono tre percorsi ben sottolineati nella sua malinconia e nel suo recitativo poetico. Una poesia fatta di sensazioni e di espressioni. La sensualità della parola non è un atteggiamento che si riscontra nella lingua. E’ un sentire che si recupera nella solitudine. Perché solo nella solitudine si ascoltano i frammenti di una ricerca che porta verso un messaggio di eterno non una meraviglia ma la affermazione di una religiosità nell’attesa della parola che si compie come atto di contemplazione. Ma la poesia è anche contemplazione. Ovvero: “Tu mi cammini a fianco,/Signore. Orma non lascia in terra il tuo/passo. Non vedo Te: sento e respiro/la tua presenza in ogni filo d’erba,/in ogni atomo d’aria che mi nutre” (da “Tu mi cammini a fianco” in Fons amoris, 1946). E’ proprio vero che Ada Negri appartiene ai “grandi inseguitori di Dio” come ebbe a dire Carlo Bo. Nel sentimento dell’attesa che si fa costantemente non miraggio ma respiro di speranza. E la parola ci permette di liberarci di alcuni stereotipi e di ritrovare, proprio attraverso i linguaggi, una memoria che è fede e tradizione. “Ero sul punto in cui son chiusi ancora/gli occhi, ma la memoria a noi ritorna,/quando una voce mi chiamò nel sonno” (da “La voce” in Vespertina. 1930). Ci sono i paesaggi dell’esistenza dell’anima che albeggiano e tramontano nei sentieri dei nostri cammini. Ada Negri è un albeggiare e un tramontare. Un poesia che continua tra le pause del tempo in un silenzio dentro il quale si ritrovano i ricordi del tempo. La poesia di Ada Negri è un ricordare nel tempo in una religiosità che è rivelazione e mistero. Non una maniera ma una tradizione. Una tradizione tra i linguaggi e lingue che si fanno antropologia.
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