Segnalo quest’intervista di Piero Banucci a Margherita Hack, pubblicata su “La Stampa” – “Tuttolibri” il 17 settembre 2011, che trae spunto dalla pubblicazione del libro della Hack La mia vita in bicicletta, in uscita per Ediciclo (per cui, a fine ottobre, uscirà anche la nuova opera del ‘nostro’ Marino Magliani Amsterdam è una farfalla).
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Intervista di Piero Banucci a Margherita Hack
Fiorentina trapiantata a Trieste, campionessa italiana di salto in lungo, celebre astrofisica, divulgatrice di successo, circondata da gatti e da cani, a 89 anni Margherita Hack si batte per una «libera scienza in libero Stato» e perché i malati terminali possano scegliere il proprio destino. Ma intanto se ne esce con La mia vita in bicicletta (Ediciclo), inno alle due ruote silenziose, agli allegri sudori della giovinezza, alle campagne attraversate pedalando.
Da piccola giocava con il Meccano. «Le costruzioni mi attraevano. Una volta vidi un incrociatore a Venezia, ne feci un disegno e poi un modellino». Oggi la psicologia cognitiva ci spiega che il Meccano, con le sue viti, allena nel ragazzino i movimenti fini delle dita sviluppando sinapsi nel cervello. Cosa che non avviene con il Lego, che sollecita solo la forza bruta della compressione. Harold Kroto, Nobel per la chimica, racconta che sa distinguere tra gli ospiti della sua casa chi ha giocato con il Lego e chi con il Meccano: i primi stringono troppo il rubinetto del lavandino, danneggiando la guarnizione. Ma, subito dopo il Meccano, Margherita Hack desiderò una bicicletta, e la ottenne al primo anno del liceo.
«Quando incominciai a fare sport – pallacanestro, salto in alto, salto in lungo – mi innamorai del ciclismo. Facevo il tifo per Binda, e litigavo con Aldo, che invece teneva per Guerra. Ci eravamo conosciuti ragazzini al Bobolino, un giardino di Firenze, e mi era antipatico. Ci ritrovammo all’università, ci siamo sposati e siamo insieme da più di settant’anni. Ma in bici ero una solitaria. Ogni giorno facevo almeno 50 chilometri. L’estate del 1940 la passai in sella dal mattino alla sera, in giro per Firenze, Fiesole, mi arrampicavo sulle salite della Porrettana verso Bologna».
Le spiacerà vedere il ciclismo svilito dal doping…
«Certo preferisco l’atletica. Nel ciclismo però non girano troppi soldi, è ancora in gran parte uno sport povero. Il peggio è nel calcio».
Che libro ha sul tavolino da notte?
«Non ho libri sul tavolino da notte. Così come in casa non c’è una biblioteca, una stanza dedicata alla lettura. I libri sono dappertutto, in un gran disordine. Storia, filosofia, politica, medicina, letteratura. Tanta scienza. In ogni stanza ce n’è un mucchio, accatastati come capita. Saranno ventimila. Ma in gran parte sono di Aldo: lui è laureato in Lettere classiche, è stato un lettore accanito. Di questi ventimila libri, i miei saranno un migliaio».
Legge più narrativa o saggistica?
«Ormai soltanto saggistica. Ma negli ultimi anni ho letto sempre meno. Forse anche perché ho scritto molto. Il tempo è poco. La cosa singolare è che ora mi capita di dover leggere libri che non ho scelto io, ma per i quali mi chiedono di scrivere la prefazione…».
Che futuro immagina per il libro? Vincerà l’e-book, il libro elettronico?
«Non lo so. A me piace sfogliare un libro di carta. Certo con l’elettronica una biblioteca intera sta in un computer tascabile. E poi ci sono migliaia di libri su Internet. Ma questi vanno bene per una consultazione. Mi capita spesso di cercare un autore su Internet, ma per trovare un’informazione, un dato, una pagina».
Se deve consultare un’enciclopedia?
«Mi fido di più dell’Enciclopedia Britannica».
Abbozziamo il diario di lettura della sua vita.
«Imparai a leggere a cinque anni. Nella casa dei miei genitori c’era uno scaffale con parecchi testi ma quelli che mi colpirono furono il volumone della Divina Commedia e Pinocchio. C’erano anche i libri di Camille Flammarion, il grande divulgatore dell’astronomia».
E’ stato Flammarion a rivelarle l’astronomia?
«No. Lo leggeva il babbo. Quando sfogliava quei volumi rilegati sbirciavo le incisioni che rappresentavano la Luna, le costellazioni, i pianeti, ma l’astronomia per me venne dopo. Mi iscrissi a Lettere. Ci rimasi un’ora sola, il tempo di ascoltare una lezione di De Robertis che commentava un libro di Emilio Cecchi, I pesci rossi. A me interessava la fisica. E ho studiato fisica. L’astronomia fu una conseguenza: mi diedero una tesi che riguardava una stella variabile, e all’Osservatorio di Arcetri fu l’astronomo Mario Fracastoro a insegnarmi a usare il telescopio. Era molto giovane anche lui, la mia fu la prima tesi che gli venne affidata».
Torniamo alle prime letture.
«Incominciai da Pinocchio, mi divertiva. Leggevo anche novelle di fate, tante storie di animali.
E L’Avventuroso, una rivista per ragazzi piena di storie fantasiose e di eroi improbabili: Mandrake, un certo Minge, che era cinese ma anche extraterrestre. Più avanti negli anni mi piaceva Salgari: Il Corsaro Nero, Jolanda la figlia del Corsaro Nero, Sandokan. E poi I ragazzi della via Pál, dell’ungherese Ferenc Molnár».
Letture scolastiche: che ricordo ne ha?
«Mi piaceva l’Odissea: racconta tante avventure. Detestavo l’Iliade perché è un libro di guerra. Manzoni fu una lettura obbligata. Lessi I promessi sposi svogliatamente. Ho poi ripreso Manzoni per conto mio, e l’ho apprezzato, ma la storia di Renzo e Lucia non mi ha mai trascinata. Anche Verga è rimasto un autore scolastico. Meglio Leopardi. Non quello delle Operette Morali, ma il poeta del Pastore errante».
Leopardi quindicenne compilò una storia dell’astronomia e lei ne ha scritto il seguito dall’Ottocento ai nostri giorni.
«La storia dell’astronomia di Leopardi è un lavoro nozionistico, ma contiene anche notazioni interessanti. Per esempio, Leopardi fa notare che gli scienziati ottengono i risultati migliori da giovani, ed è vero. Parla dell’ipotesi che esistano creature extraterrestri, sostenendo che però non ne sapremo mai nulla perché ci separano distanze enormi. Questo è moderno, è ancora attuale».
I grandi romanzi?
«Su suggerimento di Aldo ho letto Tolstoi, Dostoevskjj, La montagna incantata di Thomas Mann. Questi sono libri che mi hanno colpita».
Da molti anni vive a Trieste, una città speciale, per la letteratura.
«Sì, la città di Italo Svevo e di Joyce».
E di autori come Fulvio Tomizza. Vi conoscevate?
«Ci siamo incontrati qualche volta. Ma non posso dire che ci si frequentasse. Non amo i salotti letterari».
E Claudio Magris?
«Ci si conosce, ci si stima. Eravamo professori nella stessa Università. Anche lui è appartato».
Aldo frequentava scrittori? Glieli ha fatti conoscere?
«E’ stato amico di Prezzolini e di Papini. Li ho conosciuti entrambi. Ma non andavo d’accordo con le loro idee».
Scorriamo qualche nome del Novecento: Moravia?
«Ho letto i racconti, credo siano la sua cosa migliore».
Bassani?
«Ho letto Il giardino dei Finzi-Contini, senza entusiasmo. Mi interessavano di più Pratolini e Pasolini».
Calvino? Primo Levi, che oltre ad aver testimoniato lo sterminio degli ebrei era un chimico e ha scritto racconti di tema scientifico?
«Ho letto un poco Primo Levi, non Calvino».
Elsa Morante, Gadda?
«No».
Poesia? Ungaretti, Montale, Quasimodo, Sereni, Zanzotto?
«No, se devo scegliere un poetale dico D’Annunzio. E, tra le sue poesie, La pioggia nel pineto».
Lei ha lavorato negli Stati Uniti. Erano gli anni di Hemingway. Fu conquistata dalla quella letteratura americana che in Italia aveva cultori come Pavese e Fenoglio?
«Hemingway non mi piaceva. Mi piaceva Faulkner».
C’è un libro minore ma che le sia rimasto impresso?
«Un libro di Vittorio Pozzo, allenatore della Nazionale italiana di calcio e poi famoso giornalista sportivo. Risale a quando nel 1934 e nel 1938 l’Italia vinse il campionato del mondo. Era intitolato Da Roveda a Londra. A Roveda si svolgevano gli allenamenti. Roma ospitò le partite nel ‘34. A Londra, già campioni del mondo, giocammo contro l’Inghilterra, che allora snobbava il mondiale. Credo che ne uscimmo con un pareggio».