Piero Simoni legge Giorgio Fontanelli

Creato il 21 gennaio 2012 da Edizionidelcalatino
Lettura di Piero Simoni della poesia “XIV” di Giorgio Fontanelli tratta da GEORGICON, V – V.Scheiwiller 1973Giorgio Fontanelli (Drammaturgo e poeta, critico teatrale. Livorno 1925 – 1995)XIVC’è il latte all’ospizio ogni sera.Perché non li lasciano bere?Sarebbe più facile tutto,finanche ignorarli od odiarli.Quegli altri, là fuori, gli bastaun quarto di vino e d’un trattoinventano il tempo e perfinoi gesti e le frasi che aggiustanogli errori di tutta una vita.Eppure si sogna lo stesso.Che un giorno la suora ti avvertache s’è liberata una stanzamagari anche senza finestre.Per questo c’è sempre qualcunoche mette da parte moneteche scalda di febbre, e farfugliache lui deve vivere più a lungodi tutti quegli altri, finchénon si sia comprato il suo postoalmeno nel campo dei morti.E gli altri lo guardano zitti.Sono quelli che possono morirea un giorno, a un’ora qualunque.Per loro sarà come sempre,sarà come ora all’ospizio,la stessa vergogna a riceverei figli così, in mezzo agli altri.Sarebbe più facile tutto, in questo tutto vi è la più celere risoluzione per chi è ospite della casa di riposo, chevedrebbe il suo tempo finale, di agonia alla vita, drasticamente ridotto. Anche per coloro che devonoaccudirli, materialmente e amministrativamente, sarebbe più facile: meno impegno di personale, menostanze da pulire, letti da rifare. “Casa di riposo”, una denominazione che è ironia della sorte, visto che puòcostituire, quella forzata degenza, un’anticamera dell’inferno, forse già l’inferno morale e fisico su questaterra.A chi è fuori può bastare un quartino di vino per inventarsi il tempo; è proprio il tempo che manca quando siè al ricovero, il tempo della vita, quella associativa, quella che ci coinvolge con i familiari e con le vicende diogni giorno. Quando si è all’ospizio, il tempo si arresta, le luci si spengono, il sole non guarda e non scaldapiù, si avverte l’incolonnamento nel corridoio, con una moltitudine, verso la stanza terminale, senza appello,senza ma. Il mondo fuori è altro, gira per conto suo, in un vortice che può non piacere, dal quale ora, comeanziani, si è esclusi. Altro era la vita, qualsiasi vita, pur di rimanere. Il tempo, chi è della vita, non ne fatesoro, lo spreca in mille ammannicoli, in mille contorte viuzze; il tempo, quel che ci è dato, sfiorato dai raggidel sole, dai baci, è l’unico grande, vero, tesoro. Chi ha il tempo è un signore, chi ha la possibilità di vivereliberamente il suo tempo è un gran signore; non la ricchezza economica, ma i sogni, conta il tempo disognare, come hanno i giovani, loro sognano e per questo sono gioviali, sorridenti, felici. All’ospizio non c’èpiù il tempo per sognare, ma solo quello di raccogliersi, di sparire. E’ una legge naturale certo, si vive e sidovrà poi morire, tutti, ma fa male, fa male il pensarlo, quando si è vicini, fa male quando ne si è coinvolti: lacognizione della fine, certificare in se stessi, e in chi ci circonda, che il processo è inesorabile, inarrestabile.Sarebbe meglio se si risolvesse, dopo una adeguata presenza, improvvisamente, senza il tempo diprenderne sufficiente coscienza, ma non è sempre così.Si inventano gesti e frasi che aggiustano gli errori commessi; finché si è ancora coinvolti negli accadimentidella vita, si può ancora rimediare a qualcosa, si può anche barare agli altri e a noi stessi, si può costruire einventare una felicità artificiale, ma la luce è un’altra cosa; quando si è definitivamente al margine, non si puòpiù rimediare a nulla, il tempo è scaduto. Nulla che possa divertirci, nulla che costituisca felicità,vistol’abbandono, visto lo stato di mendicanza in cui si riversa: atroce condanna dell’anima, guardare ancora allavita, mentre il corpo sta morendo.In questo terminale dell’esistenza, si spera in qualcosa, che un giorno si liberi una stanza tutta per noi, che cifaccia più appartati dal volgo vociferante; i vecchi, oltre a rompere il silenzio, taluni si fanno i bisogniaddosso, vomitano, dormono in pose scomposte, innaturali, al tavolo di cucina, fra gli altri tavoli: un gironedel lamento, della piaga umana, qualcosa che non ha più nulla della gioia negli occhi dei bimbi riposta,l’anticamera già dell’inferno. Qualcuno farfuglia di voler vivere di più per mettersi qualche soldo da parte, edavere almeno al camposanto un suo posto, tutto suo, che nessuno poi andrà a vedere a rinfoltire e sostituirei fiori di plastica, con l’erba alta del colore dell’abbandono. Triste quadro l’andare avanti e indietro per ilcimitero, i garofani in mano, a rinnovellar i pensieri che non possono essere ascoltati, ma ciò acquietal’animo di chi è vivo.Gli altri in silenzio lo guardano. Coloro che fra i poveri sono gli ultimi, nella società sempre al margine, asubire ogni angheria, ogni speculazione, ed ora, anche al ricovero, non hanno diritto a niente, possonomorire in ogni istante; per loro, la comune vergogna di ricevere i figli fra gli altri, senza diritto ad uno sguardoprivato. Anche se la fine tutti ci rinserra, vi è distinzione nella miseria, vi sono vari stadi di povertà, ci sonosempre i più umili fra gli umili, i più miserabili fra i poveri, perché il grado di sofferenza che ci vieneconsegnato non è per tutti uguale; ciascuno si dovrà avviare all’ultima stanza, quella in fondo al corridoio,ma c’è chi vi arriva con gli agi. Lo sguardo di Fontanelli, in questa lirica, oltre ad interessarsi di uno stadiodella nostra esistenza, quello della miseria umana, fa distinzione in questo frangente, cogliendo e velandod’amore fraterno chi, sul globo che ruota, ha avuto per sé, in serbo, ancor meno calore, più colma la propriaindividuale sofferenza.Visto dall’alto, dalla distanza abissale dell’universo, che fa la stella di nostra pertinenza una fra le tante, lecentinaia e centinaia del firmamento, che ci fa piccoli piccoli nello spazio e nel tempo infinito, bisognaosservare che l’uomo, nella sua organizzazione sociale, nella sua umana comprensione per la fragilità che insé stesso incorpora, non dà una bella prova di sé.27 settembre 2010

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