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Pif: “La mia satira sulla mafia non offende la tragedia”

Creato il 25 novembre 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema

“Negli anni ottanta tutte le donne avevano le spalline sotto la giacca. Allora tutti le volevano, ma oggi sembrano ridicole, ti chiedi com’è possibile che siano esistite. Se guardi oggi i fatti di Mafia, ascolti quelle parole, dici: ‘come è stato possibile?’ Se senti le parole di Andreotti e degli altri oggi pensi che non c’era bisogno di alcuna indagine: era tutto chiaro”. Pif, al secolo Pierfrancesco Diliberto, già protagonista de Le iene e de Il testimone in tv, spiega così il senso del suo primo film, La mafia uccide solo d’estate, presentato alla stampa a Roma prima di essere presentato al Festival di Torino. Il suo sorprendente film vede la mafia con gli occhi di un bambino, Arturo, innamorato della sua compagna di classe Flora: mentre fa di tutto per conquistarla, attorno a lui accadono gli efferati delitti della Mafia a Palermo tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.

“Perché a gente non si ribellava? Alcuni erano collusi, altri negavano la pericolosità della Mafia, creavano degli alibi” spiega Pif. “‘La Mafia non ci tocca’ era il pensiero di tanti. Vivevamo in una bolla: questa cosa da una parte ci ha salvato, dall’altra ha isolato persone come Rocco Chinnici”. Chinnici, Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa: il film è un omaggio a tutti gli eroi che hanno combattuto la mafia, e la Storia con la S maiuscola si mescola con la storia surreale di Arturo e Flora (interpretati, da adulti, da Pif e Cristiana Capotondi). Scritto dallo stesso Pif (che cura anche la regia), insieme a Marco Martani e Michele Astori, La mafia uccide solo d’estate è un modo nuovo di fare un film sulla mafia, uno sberleffo ai mafiosi, allo stesso tempo una storia d’amore e di impegno civile. Ne abbiamo parlato con i protagonisti e gli sceneggiatori.

Come nasce l’idea di questo film?
Pif: Quando mi sono trasferito a Milano da Palermo mi facevano tante domande sulla Mafia. Spesso si creava un equivoco: che la Mafia fosse Totò Riina, questo contadino un po’ sovrappeso. Io cerco di spiegare che la Mafia era fatta anche da persone che frequentavano la Palermo bene, persone gentilissime. A furia di raccontarlo ho iniziato a leggere, a informarmi. In parecchie puntate de Il testimone parlo di Mafia partendo dalla mia passione per la brioche con il gelato, finendo per intervistare una persona che è figlia di una vittima della Mafia. Uso un tono molto particolare. Ma quando faccio le cose non penso a cosa è giusto e cosa non è giusto.
M. Martani: Non è stato facile mescolare i due toni, la commedia e i fatti più coinvolgenti. Dopo avere letto gli atti processuali e le cose rese pubbliche abbiamo raccontato le cose dette dai mafiosi: sembrano battute di una sceneggiatura geniale, sono esilaranti, ma sono le vere cose che hanno detto i mafiosi. Sono cose che fanno paura, ma fanno anche ridere.
M. Astori: Ci chiedevamo se si potesse ridere di queste cose. C’era un po’ di preoccupazione, cercavamo di capire quando e dove fosse possibile scherzare. Pif ci diceva che forse, perché nasceva da un palermitano, la cosa poteva passare. Il punto chiave del film era raccontare un mondo siciliano mai raccontato: una piccola borghesia che vive a contatto con la Mafia, si nutre della Mafia e si ricorda della sua pericolosità solo quando il delitto la sfiora.

Come avete lavorato all’uso del materiale di repertorio?
Pif: Abbiamo inventato una vita che si incastrava con i fatti accaduti: le immagini ci davano le informazioni. Sono stato alle Teche Rai, un museo, un repertorio da trattare con in guanti, ed è stata un esperienza incredibile. L’emozione di vedere il funerale di Dalla Chiesa è stata unica. La scommessa era quella di mixare il nostro girato con il repertorio: in un film come Milk questo lavoro è straordinario, noi ci abbiamo provato. La scena finale è stata girata con un Beta, una telecamera del ‘92. Nella scena in cui il bambino va al funerale di Dalla Chiesa ho chiesto apposta all’operatore di muovere la telecamera per creare l’effetto della ripresa televisiva.
M. Martani: Sappiamo che c’era quel materiale e abbiamo deciso di usarlo. Conoscere il repertorio ci ha permesso di scrivere la sceneggiatura in maniera coerente.

La Mafia Uccide Solo D'Estate

La Mafia Uccide Solo D’Estate – Locandina

Che impressione farà questo film a Palermo? Che percezione c’è della mafia tra i giovani?
Pif: Ormai non vivo più a Palermo. Ma la speranza è che questo non debba accadere di nuovo. I politici del nord oggi ricordano quelli degli anni Settanta a Palermo, non vogliono riconoscere il potere della Mafia al nord: se oggi un candidato sindaco del nord parlasse di Mafia, è come se ammettesse la sua esistenza. Oggi la Mafia è un po’ meno potente, ma proprio per questo lo Stato ci deve essere, proprio per questo va continuata la lotta. Quando l’attenzione era tutta per la Mafia, Camorra è Ndrangheta hanno vissuto tranquille. Oggi l’attenzione è tutta sulla Camorra, e non bisogna abbassare l’attenzione sulla criminalità siciliana. La Mafia più pericolosa è quella silenziosa: in questo Riina ha sbagliato strategia.

Anche lo Stato è meno potente, non ci sono i Falcone, non ci sono i Borsellino…
Pif: Voglio essere ottimista. Falcone e Borsellino sono diventati loro anche perché erano isolati dallo Stato e la loro ostinazione veniva evidenziata ancora di più. Le cose sono migliorate, un Vito Ciancimino oggi avrebbe vita dura. A Palermo esiste un’associazione, Addiopizzo: oggi ci sono 800 negozianti che non pagano il pizzo e hanno attaccato un adesivo sulla vetrina; ora appena vedono l’adesivo i mafiosi se ne vanno. È una cosa meravigliosa. Abbiamo girato quattro settimane a Palermo senza che nessuno ci chiedesse il pizzo. In queste cose il gruppo aiuta, è qualcosa che si alimenta. L’importante è non avere un leader, se la Mafia lo individua lo colpisce. La cosa pericolosa però sarebbe far finta che tutto è stato risolto.

La satira, rispetto a una denuncia palese, può dare maggior risalto?
Pif: Io vengo da Le iene, che insegnano come parlandone in questo modo attiri più gente. Un ragazzino fa più fatica a vedere un film classico. Questo è un modo per attirare l’attenzione. Vigliaccamente per promuovere questo film volevo lanciarlo come una commedia di Natale: una volta dentro il pubblico non sarebbe scappato. Qui ci sono molto scene che attirano, per poi dare un cazzotto in faccia. L’importante è che la satira non offenda la tragedia.

Come avete trattato gli omicidi? L’assassinio di Salvo Lima è l’unico che si vede esplicitamente…
Pif: Nella scena dell’omicidio Lima c’è meno sentimento. Abbiamo fatto vedere i killer che parlano al semaforo per far capire che non erano dei marziani. Il killer di Pio La Torre aveva scoperto chi aveva ucciso leggendo i giornali del giorno dopo. Quando uccisero Lima il preside ce lo disse. Io dissi: “chi va con lo zoppo impara a zoppicare”. Con questo film spero di aver spiegato chi erano i buoni e chi erano i cattivi.

Che esperienza è stata questo film?
C. Capotondi: È un’esperienza che assume un significato particolare, è un pezzo i storia del nostro paese dal quale non si può prescindere per capire la storia odierna. Come persone analfabete abbiano gestito e contaminato un intero paese è un mistero che mi incuriosisce. È una radice che oggi è meno visibile ma è ancora tra noi. Nel 1992 avevo nove anni e ricordo quel periodo per la tensione che vivevano i miei genitori: c’erano state le bombe al Velabro e io avevo paura. Questo film è la migliore idea che avessi visto negli ultimi anni e volevo farne parte. È fondamentale riuscire a raccontare con leggerezza una tragedia simile: film come La vita è bella e Il grande dittatore hanno fatto questo, facendo ridere e facendo anche pensare. Ti affezioni a Boris Giuliano e a Carlo Alberto Dalla Chiesa perché sono così umani che il loro sacrificio sembra ancora più alto.

Di Maurizio Ermisino per Oggialcinema.net

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