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Pingpong

Creato il 13 settembre 2011 da Eraserhead
PingpongNell’estate in cui suo padre ha deciso di suicidarsi, il giovane Paul piomba in casa dello zio benestante. Qui trova il cugino Robert votato all’alcolismo e l’ambigua zia Anna dalla quale è attratto.
Esempio solare di come le idee semplici diano spesso ottimi risultati. Con Pingpong (2006) il regista Matthias Luthardt, olandese d’origine ma formatosi cinematograficamente in Germania, incide su pellicola un dramma teutonico praticamente perfetto. Utilizzando il minimo indispensabile (tre attori e un cane, una villa con piscina e un tavolo da pingpong) scandaglia i bassifondi dell’eticità all’interno di una cornice insospettabile come può essere la famiglia di un rispettato dottore. Il meccanismo concettuale ed anche quello tecnico viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda di un certo cinema austriaco che dagli anni ’90 in poi si è imposto al pubblico; il procedimento si avvicina di più ad un svelare la storia piuttosto che a proporla in maniera esibitoria, la sensazione è che nelle suddette opere la mdp sia un mezzo invisibile che riprende situazioni potenzialmente credibili anche senza il “filtro cinema” e ciò le rende ancora più accattivanti e coerenti alla realtà.
Non è perciò un caso se in questa intervista Luthardt cita tra le fonti di ispirazione il film Animal Love (1996) oltre che Haneke e von Trier, ma è proprio la filmografia dell’austriaco Seidl ad avere grandi affinità con Pingpong. Il rapporto morboso della donna con il proprio cane è solo l’appendice di un quadro negativo molto più ampio che comincia, per così dire, fuori campo, ovvero con il suicidio del padre di Paul che noi non vedremo mai. L’esplorazione della vita agiata illumina zone di profondissima ombra che segnano inquietanti contrasti: il lusso dell’abitazione è in antitesi con l’inumanità di chi la sfoggia, la ricchezza culturale (le lezioni di musica) è una pietra tombale che una volta scoperchiata rivela putrescenze esistenziali come le inclinazioni alcoliche di Robert o i comportamenti sessuali e non della zia. A questi macro segnali il regista ne affianca altri tutti da leggere fra le righe, abbiamo un laghetto contaminato in cui galleggiano panciuti pesci morti, un sinistro ronzio durante il brindisi iniziale e l’imperturbabile figlio che mastica quel ghiaccio del quale sembra essere forgiato. Tutti elementi ammorbanti che si scagliano contro il candore e la limpidezza di una partita a tennis da tavolo con la sua musicalità (il tic-toc trova la completezza per le orecchie di Robert) e il piacere integro della ludicità, aspetti insufficienti, comunque, a tamponare il naufragio morale di queste persone come testimonia il miglior campo lungo dell’opera.
La complicità con lo spettatore che si snoda in un percorso fatto di sottile ironia e ancor più sottile (ma insinuante) oscurità è tale da rendere il film di Luthardt un prezioso monile da appendere a imperitura memoria al collo raggrinzito di questa vecchia Europa, e forse del mondo intero.
Cinema outsider che colpisce duro, durissimo.Pingpong

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