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Pioggia, madri, Jean Cocteau e altri insetti

Creato il 04 luglio 2011 da Violentafiducia0

Le previsioni del tempo mi servono per decidere che scarpe dovrò mettere. Domani scarpe chiuse, allacciate strette sulla caviglia. Mamma, domani piove, ricordami l’ombrello. Parlare, mi capita ormai spesso di parlare al muro. Muro lungo, celeste chiaro, chiaro quasi trasparente, muro color carta da zucchero, muro schifoso e poco loquace. Non mi risponde, mia madre non mi risponde.

Mia madre non c’è. Ha gli occhi castani, i capelli cortissimi. Porta gli occhiali da quando glieli ho visti addosso in una foto scattata nel ’73, in cui mia madre ha una montatura bianca grandissima e dei pantaloni verdi a zampa d’elefante. Un sorriso che illumina tutti quelli spenti vicino a lei, in questa foto del ’73.

Mia madre la chiamo ma non mi risponde. Quando ci sentiamo al telefono sta lavando i piatti. Mia madre sembra che nella vita lavi sempre i piatti. Ciao mami, che fai? Niente, stavo lavando i piatti di oggi. Ciao mami, che fai? Niente, lavavo i piatti di stasera. Mia madre domani non mi ricorderà di prendere l’ombrello, perché non saprà nemmeno che qui pioverà.

Io in questi giorni mi sento sola da zero a dieci, undici. Ma mi sento sola fuori. Dentro ho delle parole in lingue diverse che mi navigano su e giù. Oggi ho capito questa cosa. Che c’è gente che vive per le storie e gente che vive per le parole. Io vivo per le parole. Le storie sì, anche, ma le storie vengono dopo. Una parola può esistere senza fare parte di una storia. Una storia ha bisogno di tre quattro cento ottomila parole per esistere. A me, se mi dai una parola ma non mi dai una storia, mi fai felice lo stesso.

Per questo, credo, le poesie mi piacciono.

Per questo, credo, storie mi sa che non ne so scrivere.

Ma nemmeno poesie sono capace di scrivere.

Qualcuno potrebbe dire che ogni parola ha la sua storia. Lo dica, qualcuno.

Io ora volevo solo dire che domani pioverà, domani martedì cinque luglio, lo stesso giorno in cui è nato Jean Cocteau, e forse quando è nato c’era anche da lui un cielo liquido grigio come cemento appena impastato. Qui c’è. C’è già stasera, ma è tardi, sembra catrame. Domani ci svegliamo tutti freschi e sudati, io mi metterò le scarpe chiuse, la camicia bianca, i jeans, gli occhiali da sole per piangere, la musica per camminare e andrò a parlare di come sia meglio non arrabbiarsi, di come sia meglio essere clementi e andare lontano per non sentire le offese e i dispiaceri, guardare le stelle di un altro cielo e controllare che siano sempre infinite, rovesciate come latte.

E ti dirò che ho voglia di andarmene, per sparire e non ricominciare. Arrivare da qualche parte senza prendermi addosso la fatica di partire. Ti dirò che torno, lo sai che torno, ritorno sempre. Ma avrei voglia di non tornare più. Fare vuoto dentro e fuori, fare vuoto attorno, costruirmi un muro invalicabile di stabilità.

Quand’ero bambina spesso uscivo a giocare in terrazza. Quando potevo uscire in terrazza senza essere rimproverata voleva dire che era estate, che mi era consentito essere felice. Le rondini avevano nidificato sotto la tettoia, del loro volo era rimasto qualche escremento secco sulle mattonelle. Altri uccelli cinguettavano finché li accompagnava il sole. Api, ragni e altri insetti. Una tenda a strisce arrivava fino al balcone, fermata da due piccole chiavi a due assi di metallo. Tutte le mattine, appena sveglia, uscivo in terrazza e toglievo le chiavi. Ecco, pensavo, adesso potete venire a trovarmi.



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