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Poesie e Racconti #32 – Nebbia dei Sensi

Da Dietrolequinte @DlqMagazine

una immagine di Bette Davis nel film Tramonto 1939 di Edmund Goulding 620x465 su Poesie e Racconti #32   Nebbia dei Sensi

Soffusa inconsistenza del fumo di una sigaretta. Il mondo lo guardava da lì, da dietro quella coltre protettiva, alimentandosi della separazione fra se stesso e tutto il resto. Insensibile a tutto. Non se ne accorgeva, naturalmente, ma la gente lo giudicava così. E lo evitava, cercava di stare lontana da quell’incomprensibile freddezza, forse per paura di esserne contagiata. Nessuno ne aveva compassione, nessuno osava porsi domande. Semplicemente, l’evidenza dei fatti bastava. Chissà da quanto, poi. Forse da sempre, forse da troppo poco tempo, eppure, la cosa suscitava scalpore. Il suo comportamento, un elemento discordante nell’armonia della vita, offriva pur sempre alle persone un’occasione per comunicare, per partecipare ad un fenomeno inconsueto, per non annoiarsi nella monotonia dei gesti quotidiani. Era incredibile che la sua presenza, così silenziosa e inconsistente, lasciasse il segno. In certi momenti, pareva che da quei suoi occhi perennemente adombrati si diffondesse intorno un’agghiacciante pesantezza in grado di annientare ogni intenzione… E non rimaneva nulla da replicare: era semplicemente, terribilmente disarmante.

«Hai visto? Sta arrivando!»

«Quel delinquente…»

«Ma perché? Se non ha mai fatto niente!»

«Appunto. Tu ti vai a fidare di uno così… così…»

«Apatico?»

«Sì… penso che si possa dire così…»

«Poveretto.»

«Come?»

«Magari non è colpa sua… Magari ha dei problemi…»

«Io ho paura. C’è da aver paura di quelli come lui, quelli che se ne stanno in disparte, soli… Possono far saltare tutto da un momento all’altro!»

Camminava, quello sì, guardando sempre un punto fisso davanti a sé, quasi nell’intenzione di voler raggiungere una meta ben precisa, ma non arrivava mai da nessuna parte; nessuno capiva queste movenze da inseguitore o da fuggiasco. Fermo davanti alle vetrine dei negozi, non osservava la merce esposta, sembrava attraversarla, per poi fermare lo sguardo sulla propria immagine riflessa, sospirare e proseguire. Un enigma, dall’esterno, lo scopo delle sue azioni: l’illogicità del continuo rifiuto di tutto ciò che incontrava. Ma la solitudine estrema, no, non la cercava; era sempre a contatto con la gente; costantemente in mezzo, ma mai coinvolto in alcuna relazione.

Si poneva nel mondo con l’atteggiamento distaccato di chi osserva tutto ma non vuole giudicare, sente e vede, ma è nell’impossibilità di ascoltare e guardare veramente. Come una rinuncia al rischio della partecipazione.

Vent’anni, ma una malcelata esperienza del tutto; la delicatezza infantile del suo volto tradiva uno sguardo audace, tipico di chi ha già fatto centinaia, migliaia di incontri, nella vita, e ora va avanti ammaccato, ma fiero delle cicatrici che gli decorano il corpo. E i ragazzi della sua età, pieni di vitalità e di energia, lasciava che gli passassero accanto: una netta distanza li separava, e, come quelli, così tutto scorreva su di lui, come un vento leggero che non fa rumore e non lascia traccia del proprio passaggio.

Ma un giorno, un giorno come tutti gli altri, ma anche un po’ diverso da tutti gli altri, qualcuno puntò gli occhi su di lui. Era l’unica sagoma non evanescente attraverso il fumo della sigaretta, l’unica presenza percettibile in mezzo ai contorni indistinti.

La più comune delle ragazze, ma anche la più singolare: se ne stava seduta, o meglio, raccolta, al tavolino di un bar; teneva il mento appoggiato sulla mano sinistra, come in una posa da ritratto. Ma non c’era rigidità nella sua postura; ogni singola parte del suo corpo era tesa verso qualcosa, quasi a volerla catturare. Giocherellava con le dita e muoveva le spalle a scatti; i piedi si dividevano e si riunivano continuamente. Ma perché non stava un po’ ferma? Solo gli occhi, ecco, solo gli occhi erano immobili.

Il terrore lo invase.

«Io e te ci siamo già visti. Non ricordi?»

Sorrideva, lei. E continuò a parlare, con una voce che sembrava provenire dal vuoto, candida e rimbombante, dolorosa. Il mutismo di lui non la toccava.

Lei sembrava avere una gran fretta di fare.

«Non possiamo perdere tempo! Dopo potrebbe essere… troppo tardi. E io… io ho degli impegni!»

Lo prese per mano, lo tenne stretto, come se non dovesse lasciarlo mai più.

L’aveva vista, nel suo passato. Ma non si erano semplicemente incontrati. Lei era stata parte di quel passato, aveva avuto un ruolo preciso…

Lei era un ricordo che aveva preso fattezze umane. Ma lui ancora non lo sapeva.

«Due caffè… Uno con panna! Anzi… Prendila anche tu, ti fa solo bene!»

Avvolgente come una sciarpa d’inverno, quel caffè. E in lui si affievolì il ricordo amaro delle troppe notti di veglia, quando gli occhi bruciavano senza potersi chiudere, quando ormai quel liquido scendeva duramente attraverso la gola, come una lama.

Una tenue serenità li colse mentre passeggiavano in un parco che rifletteva i raggi del sole tra le foglie, e tutto lo spazio divenne aperto.

«Sembra che tutti i colori dell’universo si siano riuniti qui. Non ti sembra? Si sono fusi in una luce… come dire… rassicurante.»

E gli alberi non erano più maestosi giganti dietro a cui nascondersi, e le panchine non erano più scomodi letti pronti ad accogliere un corpo stanco della vita.

Le pagine di un libro che prendevano forma nella voce, persero la maschera di finzione illusoria e ingannatrice; quel mondo di immagini, quell’alternativa alla realtà, fu come una boccata d’aria fresca.

«Come può stancare, tutta questa semplice bellezza?»

Lei faceva tutto con una semplicità disarmante. Lui si affaticava un po’ ad assorbire così in fretta ogni suggestione. Come la prima volta, come un bambino.

E lei c’era, era lì, un ricordo che aveva preso fattezza umane.

Era troppo, non ce l’avrebbe fatta ad andare avanti.

«Ti ricordi quando…? Ma no, forse hai cancellato tutto. Devi capire che non ha senso. Ha senso il modo in cui tu guardi il mondo? Con me lo guardavi. Ma non ti ricordi, nemmeno un po’?»

Lo abbracciò. Si alzò sulla punta dei piedi per riuscire ad arrivare alla sua altezza e lo avvolse tra le sue braccia esili e pallide. Lui subito si irrigidì, ma poi, lentamente, cominciò a distendersi, finché non riversò, in quel contatto, tutto il calore trattenuto, un calore irruento e bisognoso.

«Come posso sopportare tutta questa bellezza, questa bellezza così violenta, mi fa male, non ce la faccio… È così facile sentirsi un nulla, così facile restare immobili senza provare niente, così facile guardare la vita senza farne parte… Ho costruito ogni mia convinzione sulla certezza che c’è troppo dolore da vivere… E il dolore rimane sempre, la felicità passa in fretta, ma quello rimane nascosto. È l’unica cosa che arriva senza essere richiesta… Non è come svegliarsi una mattina e decidere di fare qualcosa, qualsiasi cosa per sentirsi bene con se stessi, non è come programmare un divertimento per togliere ogni preoccupazione dalla testa… Non c’è niente di stabilito quando cominci a soffrire…»

Allora, chino a terra, tremante, cominciò a sentire. Prima le lacrime, poi dei colpi sommessi dentro al petto, sempre più deboli e distanti.

Una lacerazione interna, uno spasmo e il buio.

Ma la percepiva ancora, a fatica, quella ragazza. La sua assassina. Lei stava perdendo quelle parvenze di antico rimorso. Adesso era un ricordo che aveva preso fattezze umane, un bel ricordo, un lontano ricordo.

«La morte si allontana vivendo. Ma tu hai allontanato me, che ero così viva. Ora lo sai, ora sai che non ti lascerò.»

E intanto indietreggiava, guardandolo. Lui sentiva le proprie forze che lo abbandonavano. Avrebbe voluto trattenerla, per guardarla in viso un’ultima volta. Ma come ebbe realizzato l’impossibilità di un altro contatto, crollò.

Lo risvegliarono delle voci attorno a lui.

«Guarda! È… è…»

«Ma non è morto! Quello non è mai esistito!»

Un sorriso estatico invase il suo volto. Accolse negli occhi la luce del sole, inalò l’aria pura, respirò. Il pacchetto di sigarette rimase abbandonato a terra.


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