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Politica industriale, la grande assente nella relazione di Visco

Creato il 03 giugno 2013 da Keynesblog @keynesblog

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Un grande appello alla “responsabilità” nell’aspettativa che la difficile situazione di crisi che attanaglia l’Italia sia (sperabilmente al più presto) superata: sono questi i toni che percorrono le “considerazioni finali” del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco diffuse lo scorso 31 maggio. Ma dalla relazione, che offre una ricca prospettiva sulle fasi che hanno caratterizzato l’inasprimento della crisi dal 2011, spicca l’accento sulla specificità della crisi del nostro paese, una debolezza strutturale che ne mina il potenziale di crescita ormai da lungo tempo.

Pur nell’abbondanza di riferimenti ai temi finanziari sollecitati dal quadro europeo, quest’anno l’analisi del disastro dell’economia reale è assolutamente dirompente, annunciandosi come un bollettino di guerra: “Il prodotto interno lordo del 2012 è stato inferiore del 7 per cento a quello del 2007, il reddito disponibile delle famiglie di oltre il 9, la produzione industriale di un quarto.” Non tradurre in cifre l’ultimo dato, può impressionare di meno, ma la dura verità resta e ci riferisce di un sistema produttivo che sta letteralmente colando a picco. Per questo lo spazio dato all’approfondimento sul tema è ampio e mostra una decisa torsione verso questioni da troppo tempo trascurate nel dibattito economico e che ancora non trovano spazi adeguati alle loro dimensioni. Ed è di innovazione che si parla perché è questo il vulnus più forte della nostra industria. Ci ricorda infatti Visco che “La capacità di innovare i prodotti e i processi, di esportare sui mercati emergenti, di internazionalizzare l’attività, anche guidando o partecipando a catene produttive globali, demarca il confine tra le imprese che continuano a espandere il fatturato e il valore aggiunto e quelle che, invece, faticano a rimanere sul mercato. La crisi ha accentuato questo divario, reso stridente l’inadeguatezza di una parte del sistema produttivo.”

Di questo deficit si dà ampio conto nel testo della “relazione”, sottolineando l’esigua entità della spesa in ricerca e sviluppo in rapporto al Pil soprattutto da parte delle imprese (0,7% rispetto all’1,2% dell’UE e all’1,9% della Germania), nonché la fallacia di quella credenza per cui anche l’innovazione non formalizzata (che non si attua cioè attraverso una spesa in ricerca e sviluppo) sarebbe efficace al pari di quella formalizzata. Si riconosce anche che una componente importante della scarsa ricerca e sviluppo delle imprese è dovuta ad una presenza prevalente di settori di tipo “tradizionale” nel nostro sistema produttivo, anche se non esclusivamente, affermando che qualora l’Italia avesse una composizione settoriale della sua industria equivalente a quella della Germania, il divario relativo alla quota di imprese manifatturiere che svolgono attività di ricerca si ridurrebbe del 10%. C’è però un particolare aspetto di cui tener conto, non dimenticandone il collegamento con la specializzazione produttiva: la dimensione di impresa, altro fattore deficitario nell’industria italiana e che ha un ruolo cruciale nei settori tecnologicamente avanzati. In particolare così come è vero che la spesa in ricerca e sviluppo per addetto cresce esponenzialmente al crescere della dimensione di impresa, è vero anche che il divario della spesa in ricerca e sviluppo per addetto in funzione della dimensione di impresa tra settori high-tech e i restanti settori manifatturieri cresce pure esponenzialmente. Esiste dunque una capacità di ricerca collegata alla dimensione, così come una maggiore intensità di ricerca nei settori tecnologicamente avanzati. La struttura dell’industria italiana risulta arretrata nella specializzazione settoriale e (contestualmente) nella dimensione di impresa, dando luogo ad un gap strutturale nella quota che complessivamente viene spesa da tutte le imprese in ricerca e sviluppo.

Quali le terapie, dunque? Banca d’Italia afferma che gli incentivi alla ricerca non hanno sortito finora effetti apprezzabili. Questo dato appare inconfutabile, ma suona abbastanza curioso che l’attesa risposta negli incentivi fosse quella di trasformare la nostra struttura industriale. Nei fatti, l’esito negativo dell’intervento pubblico in questo senso ne avvalora la sua quasi inutilità. E così si continua a parlare di imprese come di un mondo che dovrebbe trovare tutte le risorse al suo interno, che dovrebbe imparare a saper cogliere le sfide del futuro, evitando di “illusoriamente, invocare come soluzione il sostegno pubblico”. Nel confutare le possibilità di intervento che potrebbero (dovrebbero) derogare dal patto di stabilità in quanto investimenti, l’industria continua ad essere assente. Mentre sappiamo che nessun paese ha operato salti tecnologici importanti in assenza di un adeguato intervento di investimento pubblico, per l’onere e per l’incertezza che l’attività di innovazione reca con sé. Stiamo parlando della politica industriale, che ci pare il grande assente di questa relazione, e il cui senso deve essere recuperato al più presto come parte costitutiva di una politica economica per il rilancio dello sviluppo del Paese.


Archiviato in:Economia, Italia Tagged: Banca d'Italia, Ignazio Visco, politica industriale

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