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Pompei (ovvero l’altra faccia della fine) di Pasquale VITAGLIANO

Da Fabry2010

Pompei (ovvero l’altra faccia della fine) di Pasquale VITAGLIANO

“Devo decidermi entro oggi. Questo è il programma della giornata.” E pose il libro sul comodino affianco al suo letto, dopo aver lasciato traccia con un segnalibro. Praga misteriosa. Lo aveva comprato nel suo ultimo viaggio all’estero. Le torri, le guglie, l’orologio astronomico. Lo avevano colpito le statue. Né classiche e nemmeno stilizzate, né tanto meno informi. Teatrali, piuttosto. Anzi, allegoriche. Erano familiari. Da presepe napoletano, che contrastava con lo stile gotico dominante. Si sentiva in entrambi i casi lo sforzo di raccontare la realtà. A proprio modo, ovviamente. Deformandola.
Il segnalibro, però, lo aveva comprato nel quartiere ebraico. La città di Kafka. C’era una foto del grande scrittore praghese incisa sopra: una faccia lunga, nera ed angolare. Una faccia da contadino meridionale. Ancora un’altra azzardata associazione. Come pure le pietre. Quelle incombenti e sghembe del cimitero ebraico. In prospettiva quel campo di lapidi non allineate, ma disposte in un’apparente confusione, su livelli diversi, spesso oblique rispetto alla linea del terreno, facevano pensare al giudizio universale, del giorno nel quale le tombe si dischiudono e i morti resuscitano.
A suo modo quello era per Massimo il giorno del giudizio. Uno dei tanti che si finisce per sperimentare nella propria vita. Ci appaiono così quando si presentano nella loro esclusività. Poi grazie al tempo, man mano che si vive e si va avanti, ecco che scopriamo che non uno, ma molti e diversi giorni del giudizio ci stavano aspettando. E ciascuno di questi ha perso la sua unicità. Ha diluito nella ripetizione la sua portata drammatica. E’ diventa uguale a molti altri, se non a tutti i giorni della nostra vita. E questo sì, forse, a pensarci, è veramente drammatico.
Massimo si svegliò e trovò di fronte, come ogni mattina, il suo personale skyline. Splendido a vedersi. Eppure, anch’esso inquietante. Il profilo del Vesuvio non fa paura se si pensa ad una cartolina. Se, invece, si pensa al vulcano, allora tutto cambia. Al vulcano, però, nessuno ci pensa mai. La parola vulcano orami quasi non esiste più, sopraffatta dal nome Vesuvio e, quindi, dalla cartolina.
Dopo il libro, il caffè. Sua madre glielo preparava ogni mattina. Ma lui non voleva che lo trovasse ancora a letto. E così si alzava prima del momento nel quale lei, puntualmente, si affacciava sull’orlo della camera. Massimo le andava subito incontro. Prendeva la tazzina dalle sue mani e si metteva seduto alla sua piccola scrivania. Anche questa lo accompagnava ormai da tempo immemorabile. Come il profilo del vulcano là fuori. Fissava il vulcano come ogni giorno, quando per un istante le gocce del lampadario kitch della stanza tintinnarono in modo sinistro.
Lui e sua madre erano rimasti soli. Suo padre era morto all’improvviso due anni prima. E lui era figlio unico. Non era legato particolarmente a sua madre. Certo, le voleva bene. Ma non era quello che si direbbe un mammone. Quanto a lei, ogni mattina, alla solita ora, gli portava il caffè a letto. E lo avrebbe continuato a fare fino a quando lui sarebbe rimasto in casa. Anche se Massimo però il caffè non lo aspettava a letto. Sistematicamente le andava incontro, prendeva dalla sua mano la tazzina e sorseggiava restando seduto alla scrivania. Sua madre rimaneva in piedi al suo fianco, finché lui avesse terminato di bere. E gli dava le prima notizie sulla giornata, dal tempo alle piccole cose della loro vita, per poi passare alle notizie che aveva già sentito in televisione e l’avevano più colpita. Fatti di cronaca nera, in genere. “Solo quando succede una tragedia, si danno tutti da fare”, questo era il suo laconico e immancabile commento. Non erano quelle della madre comunicazioni di servizio. Lei partecipava sinceramente ai fatti che raccontava. E’ che lui ormai si era assuefatto. Massimo partecipava alla conversazione meccanicamente, per abitudine. Doveva accadere proprio un fatto grosso perché lui si elevasse dagli automatismi del giorno dopo giorno e desse un po’ di sangue alla sue parole. Quella mattina sua madre non gli dette informazioni interessanti.
A dire il vero sarebbe stato proprio difficile distogliere la sua attenzione dal programma che si era dato per quella giornata. Decidere. Se e quando dare una risposta. Fu allora che il caffè in camera gli apparve degno di un pensiero isolato. Un pensiero proprio, autonomo. Non volle pensarvi più. Gli doleva che una singola azione avesse assunto nella sua vita una tale importanza. Reiterata per anni, interrotta all’improvviso dalla sua decisione, sarebbe rimasta isolata, per essere poi fiondata indietro nel tempo. La sveglia del caffè sarebbe diventata un luogo della memoria; appesa all’abitudine, avrebbe galleggiato nella nostalgia.
Massimo andò in bagno. Si lavò. L’acqua era calda. Ma lui odiava lavarsi al mattino con l’acqua calda. Tentò di aprire il rubinetto dell’acqua fredda. Era già aperto. Per fortuna, la temperatura cominciò a scendere. L’acqua scorreva e mentre scorreva il caldo tendeva a svanire. Non arrivò acqua fredda. Ma almeno non era più calda.
Venne a chiamarlo Lello. Non lo aspettava. Meglio così. Ormai quelli erano gli ultimi giorni di libertà. Quella vera. Quella che trovi al mattino quando ti svegli e ti accompagna fino alla notte, quando ti addormenti. E tu libero ti senti per davvero, per tutto il corpo. Perché non sarà accaduto nulla nella giornata, ma tu sei stato libero.
Massimo era un tipo normale. Lello, invece, era proprio particolare. Tagliente e veloce come una lama. Eppure era buono, autenticamente buono. Sapeva che quel giorno era importante per Massimo; che si trattava di prendere una decisione importante. Se avesse accettato la proposta di lavoro a Treviso, non si sarebbero più visti. Allora Lello aveva voluto stare con lui ed era passato a prenderlo per fare insieme un giro. Non c’erano altri impegni. A parte la decisione di Massimo. Anzi, quella inaspettata uscita sarebbe potuta essere di aiuto per la sua scelta.
Scesero per strada e si diressero verso l’auto. Entrambi allontanarono d’istinto le mani dalle maniglie. Erano calde. Le lamiere dell’auto erano calde. Solo che in alto non c’era il sole. Era una giornata grigia di inizio autunno. Non ci pensarono più. Salirono in auto e iniziarono a vagare senza una meta, così per chiacchierare. Si fecero un giro per i comuni vesuviani. Si fermarono a Torre del Greco per un altro caffè e poi ripresero il loro ozioso tour. Si parlava di tutto, senza metterci una particolare attenzione, godendosi semplicemente quello stare insieme così rassicurante. E intanto passavano in rassegna la rozza collana di case e umanità che in cinquanta anni aveva ammassato, neanche fosse stata una deportazione, più di 500 mila persone ai piedi del Vesuvio. Come lo chiamavano loro. Ma quello era un vulcano. Quando c’era stata l’ultima eruzione? Quasi nessuno avrebbe saputo rispondere a questa domanda. Pompei. Solo questa parola, anzi, questo nome, veniva associato al Vesuvio e senza più alcun particolare tragico ricordo.
“Ho prestato a te Gomorra?”.
“No, non credo. Anche perché quel genere di libri mi annoiano. Non li riesco a leggere.”
Massimo restò in silenzio, perplesso. Si ricordava di averlo prestato a qualcuno.
Ci fu un attimo di silenzio.
“Perché non ti piacciono? Anzi, è scritto bene, come un giallo. E poi, parla di noi.”
“Parla di noi? Non mi pare. Ecco…”, rispose Lello indicando il profilo del vulcano sul loro orizzonte. “Parlano del Vesuvio. Ma non hanno in mente il vulcano. Lo stesso vale per la Camorra. Se ne parla e se ne scrive, ma pochi si sono trovati veramente dentro una sparatoria.”
“Saviano l’ ha vista in faccia la Camorra”, reagì Massimo. “Si è rovinato la vita per questo.” Lello non si scompose. “Sì, hai ragione. Il coraggio di una sola persona, però, non può assolvere tutti noi.”
Il dialogo terminò lì. Senza filo logico. Così come era cominciato. Poi, ripresero a chiacchierare d’altro. Su tutto, senza particolare interesse.
Ritornarono a casa nel pomeriggio. Non avevano ancora mangiato. E quello fu il loro primo pensiero. Scesi dall’auto, notarono che era piena di polvere. Si strinsero la mano e Massimo tornò a casa. C’era ancora tempo per decidere.
Spesso, nel suo giro con Lello, vi aveva pensato. Così, casualmente.
Una sirena soggiogò i soliti rumori stradali al termine di quel giorno. Fu come trovarsi per strada, senza alcuna colpa, dentro un regolamento di conti. Era il vulcano che cominciava ad eruttare. Non si sa se Massimo e Lello erano persone giuste. Né si saprà mai se e quante persone giuste sopravvissero alla terribile eruzione.
Da quella sera, tuttavia, nessuno nominò più il Vesuvio.



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