Nadia è nata e vissuta in una città del nord, cui l’efficienza (anche se oggi le cose sono un po’ cambiate) in genere non fa difetto.
Da buona meneghina ha poi succhiato con il latte materno quello che si chiama senso del dovere. Ed è stata negli anni una figlia modello e una studentessa esemplare.
Di quelle, insomma, che tutti i genitori desidererebbero avere e che gli insegnanti additano a modello da seguire, a scuola, ai più svogliati tra i loro alunni.
Subito dopo la laurea in medicina e chirurgia, conseguita a pieni voti,e la successiva specializzazione in neurologia in un’altra città, Nadia Belmonte, la figlia dell’ingegnere Belmonte, noto professionista cittadino, inizia, come tutti, la professione medica con il consueto tirocinio delle “guardie mediche” in giro nella provincia.
Alle stesse affianca di tanto in tanto qualche supplenza per conto di un medico di base, magari un amico di famiglia ,e alcune consulenze specifiche presso studi di colleghi già noti.
Lavora di buona lena e non le mancano affatto gli apprezzamenti.
Specie quelli dei pazienti che, spesso, la riconoscono e la salutano con sorrisi gigante per strada e quando lei meno se l’aspetta. Frettolosa e distratta com’è quasi sempre.
-Buonasera,dottoressa..grazie sempre di tutto.
-Buona giornata, dottoressa e buon lavoro.
Un sera, però, Nadia rientra dal lavoro prima del solito e, parlando con entrambi i genitori, in salotto, qualche momento prima di mettersi a tavola per cena, li mette a parte di una decisione che da tempo pare andasse maturando.
- Papà e mamma, ho deciso da un po’ di lasciare Milano e sto pensando a un impegno a tempo in Africa come medico.
Padre e madre restano basiti in quanto Nadia, dopo essersi informata ampiamente e in precedenza da una coppia di colleghi, marito e moglie, conosciuti che non è molto (telefonate lunghissime, e-mail chilometriche, depliant illustrativi), dà loro per certo che ha deciso di partire, e anche a breve.
E di andare lavorare in Africa per conto di una organizzazione non governativa che, previo colloquio, recluta medici volontari.
E, soprattutto, racconta del suo proposito con naturalezza.
Più o meno la stessa naturalezza di quando noi diciamo a qualcuno di volere fare un acquisto un po’ insolito per gratificarci.
I genitori amerebbero sperare si trattasse di un’infatuazione temporanea (sognavano per lei la professione e magari anche una famiglia) ma ,conoscendo la serietà d’intenti e la tenacia di Nadia, capiscono che è cosa fatta e che, ahimè, non c’è molto da fare per distoglierla dal suo proposito.
Alcuni mesi dopo infatti, quasi sei per l’esattezza (nel mentre c’è stata la necessità di un accelerato corso di formazione in malattie tropicali), giunge il momento della partenza.
Distacco un po’ doloroso per i genitori, sorriso raggiante e grande entusiasmo quello di Nadia.
E con la coppia amica la destinazione è Yirol, un ospedale in Sud Sudan, una zona a nord del Paese, che definire desolata è un ingenuo eufemismo.
Ma per il nostro giovane medico, tutto “fuoco sacro” professionale, non ci sono problemi.
Ciò che potrebbe scoraggiare altri è una sfida per lei.
Dopo qualche tempo, il tempo appunto di rendersi conto di dove si trova e di che genere d’interventi le sono richiesti, ecco che Nadia stessa propone al direttore dell’ospedale di Yirol di potersi spostare di alcuni chilometri.
Magari a Maper- propone lei- dove è notorio che c’è bisogno di tutto.
Maper è una località non lontana ma estremamente disagiata, dove non c’è né un medico residente, né personale sanitario alcuno.
Ed essendo la sua una strada decisamente impraticabile, nel periodo delle piogge, è assolutamente irraggiungibile da Yirol, che poi è l’unico ospedale vicino.
Bene, dottoressa Belmonte,- risponde l’uomo.
Si può fare - aggiunge.
Da domani cominci a organizzare la partenza - taglia corto.
Detto e fatto.
Il direttore, cui non pare vero, acconsente.
E Nadia si ritrova ad affrontare il nuovo viaggio, al cui arrivo c’è ad attenderla una solitudine totale.
Solitudine consapevole certo, rotta solo dalla presenza degli abitanti della zona, pastori nomadi in prevalenza, i cosiddetti dinka, che le chiederanno quasi subito consulenze sanitarie di ogni genere.
Ci sono bambini malarici, che lei ha avuto già modo di soccorrere, e purtroppo anche in casi estremi, al’ospedale di Yirol.
Ci sono le donne con parti difficili. Ci sono neonati con infezioni gastrointestinali e morbillo. Giovani e anziani indifferentemente, colpiti da tubercolosi o aids.
Tanta denutrizione e, ancora, una guerriglia interna al Paese che non dà tregua.
E, manco a dirsi, pochi o niente farmaci e /o obsolete strumentazioni.
Nadia sa tutto e non si scoraggia.
Semmai lo racconta con fierezza. E lo fa soprattutto quando poi le riesce d’essere realmente utile a chi le chiede aiuto.
E ne parla serenamente per lettera o al telefono, ai suoi genitori, che sono in apprensione in Italia.
Nadia è felice così. Nel disagio. Nel poco.
Conta molto sulla rete amicale, che ha lasciato nella sua città d’origine. E non solo.
Anche perché l’organizzazione per cui lavora è nota e ha tanti amici e sostenitori.
E’ proprio come un’autentica grande famiglia.
Parlo di Medici con l’Africa- Cuamm, che lavora a questa maniera, cioè con uomini e donne di grande coraggio e di grande buona volontà da circa sessant’anni a questa parte.
Lo ha fatto, continua a farlo e lo farà ancora in Africa e in altri posti del mondo.
Ovunque, insomma, c’è bisogno di sconfiggere malattie e povertà.
Senza risparmio di forze e con tanta fede nella Provvidenza, quella fatta di mani, piedi e intelligenza di gente semplice e attenta ai bisogni dei meno fortunati.
E costoro ci sono davvero, nonostante gli scetticismi di maniera.
Senza contare poi che ci saranno sempre delle Nadie o dei Matteo, o dei Marco,o delle coppie di coniugi, proprio come gli amici di Nadia, capaci di scegliere, e senza esitazione, di stare dalla parte di chi ha più bisogno
Ma senza sentirsi affatto degli eroi.
Paghi solo di fare bene il bene. Quel bene ostinato, quell’imperativo che è insieme del cuore e della mente, che talora è difficile a comprendersi anche da chi ci sta accanto e ci ama.
Perché è bene che ignora la parola”possesso”.
di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)