Portate democratiche (all’ombra del gazebo del socialismo europeo)

Creato il 26 giugno 2012 da Frankezze

Lo sfrigolio di salsicce delle Feste dell’Unità è lontano, eppure il partito è lo stesso. Che tu abbia davanti patatine fritte, pizzaccia al taglio e fettina vero cuoio, o che tu abbia davanti melanzane lesbiche della Val d’Elsa, tagliere di formaggi progressivi e fiorentina viva su pietra lavica, sei sempre seduto nella grande tavola della famiglia del socialismo europeo. Sono lontane le contraddizioni delle feste di quartiere della Cgil, con vista sullo svincolo a tre corsie per senso di marcia: il mondo al riparo di un gazebo è più buono e giusto. E degno di essere riformato (non rivoluzionato. Mescolato, non agitato).

Quando la cameriera, che ha letto e soprattutto capito Baricco, porta il Pecorino di Pienza con composta di pere filoatlantiche, realizzi che anche la socialdemocrazia – è dura dirla, compagni – ha fatto il suo tempo. Non bisogna arroccarsi, se non in borghi medievali con vista sul mare e ottime prospettive di rivalutazione dell’immobile al metro quadro. Bisogna avere il coraggio di scavalcare gli steccati ideologici, entrando con spirito innovatore subito nel ranch della destra, per far conoscere i piaceri del lino, del tavolo prenotato e della carta dei vini a km zero a quei cowboy tamarri strafatti di coca, aragoste e vodka redbull.

Il Cervaro della Sala (annata 2006, 85% Chardonnay, 15% grechetto) inizia ad accarezzarmi le tempie, mentre nel tavolo accanto Giuliano Amato sta spiegando a Gaetano Lovatelli Caetani Faranda Morucci Verusio (Ga’, per gli amici) come si può togliere lavoro e pensione a otto italiani su dieci aumentando loro allo stesso tempo le tasse e convincendoli che è per il loro bene. Bisogna tagliare le spese e ci vuole coraggio (anche per finire la torta di ricotta con cioccolato fuso). Certo, la democrazia è una gran rottura di coglioni. Ma il monetarismo ce ne sta liberando, per fortuna.

Mi sposto al bancone del bar, per una grappa libera dal peso delle ideologie che hanno insanguinato quello che Eric Hobsbawm e Luca Barbarossa hanno definito “il secolo breve”. Accanto a me un giornalista famoso e pensoso mi spiega come ha investito le royalties del suo bestseller contro la malapolitica in un fondo che strizza l’occhio ai titoli di stato birmani. Più in là, una compagna molto attiva sta ottenendo l’appalto della stagione culturale Maremmana, mezzo milione di stanziamenti regionali più extra. L’assessore è ai suoi piedi. Si scambiano pezzetti malandrini di cioccolato della Guinea francese in purezza, pasteggiando con un Demerara riserva 25 anni. Se non ora, quando? (Glielo darà, l’appalto?)


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