Primo dato di fatto: la legge Biagi non ha creato il dramma della precarietà in Italia. Chiunque lo sostenga mente sapendo di mentire. Le nuove forme di lavoro flessibile introdotte da quella legge o non hanno attecchito nel nostro mercato, o si sono limitate a completare il percorso del pacchetto Treu del 1997.
Secondo dato di fatto: da noi il livello del lavoro temporaneo non ha raggiunto le dimensioni patologiche di altri paesi come la Spagna. Negli ultimi quindici anni, la frazione di lavoro temporaneo è aumentata, ma non esplosa. Questo può voler dire solo una cosa: visto che gran parte dei nuovi contratti è di natura temporanea, una parte di questi conduce alla stabilizzazione (in caso contrario, la frazione di lavoro temporaneo dovrebbe crescere esponenzialmente nel tempo). Ciò non toglie che molti lavoratori restino in una condizione di precarietà troppo a lungo, ma non dimentichiamoci che l'Italia degli anni '90 arrivava da decenni di disoccupazione a due cifre. Il formidabile riassorbimento della disoccupazione (prima della crisi degli ultimi anni), soprattutto quella di lunga durata e anche in presenza di una crescita vicina allo zero, è stato favorito dalle riforme del lavoro. Ed è meglio essere precari (con una ragionevole speranza di stabilizzazione) che disoccupati. Certo, alcune fasce di lavoratori deboli restano incastrate in una trappola di precarietà permanente. Ma vanno aiutati con strumenti di welfare e investimento in capitale umano, non vendendo loro illusioni o cavalcandone le (legittime) frustrazioni.
Terzo dato di fatto: la flessibilità del lavoro introdotta negli ultimi due decenni e l'aggiustamento della spesa pubblica sono stati realizzati scaricandone i costi sulle giovani generazioni. Il combinato disposto di (1) riforma delle pensioni, (2) mancata estensione degli ammortizzatori sociali, (3) mancato snellimento della pubblica amministrazione e (4) riforma del lavoro flessibile soltanto "al margine" (lasciando immutate le rigidità del lavoro standard) ha prodotto una situazione difficile per i giovani. Fassina, CGIL & company possono scandalizzarsi quanto vogliono contro chi denuncia le iniquità generazionali, ma il rapporto tra il reddito da lavoro di chi ha meno di 30 anni e chi ne ha più di 65 era intorno al 150% nei primi anni '70 ed è sceso sotto l'80% nel 2008 (dati Banca d'Italia). E, per tutelare il "diritto alla pensione" dei padri (passando dal metodo retributivo al contributivo senza utilizzare il pro-rata), si è regalato alle giovani generazioni aspettative pensionistiche da fame. Tra l'altro, il problema della precarietà non riguarda solo il privato e i "padroni". In molte amministrazioni pubbliche, per far quadrare i conti, molti giovani meritevoli e con voglia di lavorare sono assunti con contratti di collaborazione. Perché Fassina non propone di espellere dal partito sindaci e presidenti che utilizzano questi metodi? Semplicemente, perché quegli amministratori gli risponderebbero che stanno facendo gli interessi dei cittadini, e che sarebbero felici di stabilizzare o pagare il doppio tanti giovani volenterosi, a patto di potere licenziare, spostare ad altre sedi o ridurre lo stipendio per miriadi di inamovibili. Le rigidità dei padri tarpano le ali ai sogni dei figli. Nessun pasto è gratis.
Quarto dato di fatto: i diritti costano e chi lo nega prende in giro l'onestà intellettuale di chi l'ascolta e le speranze di chi ha bisogno di quei diritti. I diritti materiali hanno un costo e per questo, a differenza dei diamanti, non sono per sempre. È compito della politica, di volta in volta, indicare le priorità: quali interessi sono meritevoli di tutela e quali sono chiamati a farcela da soli. C'è una strana alleanza tra il conservatorismo di chi agisce da stanco custode delle priorità e degli strumenti dettati dalla politica di ieri, e il liberismo di chi chiede alla politica di fare un passo indietro definitivo rispetto al domani. Entrambi tolgono alla politica il compito di ridisegnare le priorità. Chi ama i diritti, invece, li vuole redistribuire, per fronteggiare le compatibilità imposte da un'economia che cambia. Conosco l'obiezione: ecco i soliti riformisti malati di economicismo, nelle vesti di tristi ragionieri che predicano la dura legge dei vincoli. Niente di più falso. Chi pone questi problemi è l'alfiere del cambiamento possibile. Gli altri vendono fumo. Come ci insegnano Stephen Holmes e Cass Sunstein: "una teoria dei diritti non disposta a calarsi dalle vette della morale nel mondo reale, dove le risorse sono scarse, sarà profondamente incompleta perfino dalla prospettiva morale".
Insomma, il programma riformista di redistribuzione dei diritti è in campo (basta leggere, solo per fare qualche nome, Pietro Ichino, Maurizio Ferrera, Tito Boeri, Andrea Ichino e Michele Salvati). A quanto pare, la pattuglia dei suoi detrattori all'interno del Pd è nutrita, anche se non proprio compatta. Civati si limita a cavalcare le litanie anti-precarietà. D'Antoni propone più diritti per tutti (chi paga? Berlusconi quando rivenderà la casa di Lampedusa?). Fassina mischia in un unico calderone vis polemica anti-liberale, posizioni da socialdemocrazia classica (tutela del lavoro dipendente, politica industriale, redistribuzione) e proposte ispirate al buon senso su cui sarebbe bene discutere (come l'innalzamento della pressione contributiva sui contratti flessibili). Ma l'impianto politico-culturale di questi attacchi alle proposte Ichino è chiaro: fermiamo qualsiasi tentativo di spostare i democratici italiani su posizioni da sinistra liberale alla Blair.
Sarebbe bello se, un po' come avviene con i referendum dei cantoni svizzeri, il Pd convocasse subito un congresso tematico su lavoro e welfare. A quel punto, tutti i dirigenti del Pd dovrebbero dire da che parte stanno rispetto a piattaforme alternative. Veltroni in qualche modo ha già scelto, iscrivendo le proposte Ichino nell'impianto del Lingotto. Bersani, Letta, Franceschini e Zingaretti che cosa pensano del lodo Fassina e del suo impianto culturale? E Renzi cosa pensa delle posizioni del sito dei rottamatori? Per favore: dite qualcosa. Anche non di riformista, ma qualcosa. L'Italia ha un disperato bisogno di politica.
Tommaso Nannicini. Economista. Docente di econometria all'Università Bocconi di Milano. PhD in economia presso l'Istituto Universitario Europeo, ha insegnato all'Università Carlos III di Madrid e svolto attività di ricerca al Fondo Monetario Internazionale e al MIT di Boston. Passioni: politica e baseball.