La vicenda dei due militari sta uscendo sempre più dai suoi binari e sta diventando una questione di orgogli nazionali contrapposti. Uno scontro impari. Da una parte c’è una Nazione di oltre un miliardo di abitanti in pieno sviluppo economico, l’India, che si sta costruendo una nuova collocazione internazionale. Dall’altra c’è un Paese di poco più di 60 milioni di cittadini che sta attraversando la peggior crisi economica dall’inizio del Novecento e una persistente crisi politica.
Di questa situazione sono uno specchio le recenti parole dell’italiana Sonia Gandhi, vedova di Rajiv Gandhi e oggi influente dirigente politica indiana. L’Italia «non deve sottovalutare l’India», ha dichiarato la Gandhi. Detto in altre parole significa: «l’India non è più un subcontinente di poveri e sfortunati, sappiamo farci valere.» Nulla da eccepire, l’India oggi è una potenza economica. Questa dichiarazione però conferma ufficialmente, se ve ne era bisogno, che la vicenda dei Marò italiani non è essenzialmente una questione giuridica, come dovrebbe essere. Del resto, se fosse così, forse sarebbe già risolta.
E’ visibile a tutti che in questa vicenda l’Italia si è mossa in modo incerto, facendo intuire che probabilmente dietro le quinte non vi è una testa sola che decide le mosse da fare. A cominciare dall’autorizzazione iniziale a far entrare il mercantile italiano in acque territoriali indiane, sino alla recente decisione di trattenere in Italia i due militari nonostante l’impegno contrario preso con l’India, questi passi lasciano più di un punto interrogativo sia sul piano giuridico sia su quello dell’opportunità. A parziale discarico dell’Italia vi è da riconoscere che il diritto internazionale presenta incertezze, in questa materia. Il caso di navi mercantili (perciò private) che vengono scortate da forze militari per proteggerle dalla moderna pirateria non è ancora regolato da una norma specifica. Le giurisdizioni si accavallano e le competenze territoriali si scontrano. Ne approfitta chi alza di più la voce.
L’Unione europea sarebbe l’unico soggetto in grado di competere con l’India quanto a peso economico e dimensione geopolitica. Purtroppo l’Unione europea non ha un Ministro degli esteri dotato di poteri sufficienti a intervenire sui diversi scenari del mondo, dominati da potenze nuove e orgogliose della loro forza. La Costituzione europea prevedeva l’istituzione di un Ministro degli affari esteri per tutta l’Unione. Come noto, nel 2005 la Costituzione fu bocciata in due referendum nazionali, per bieche ragioni di opportunismo politico locale. Oggi, anche nel «caso Marò», vediamo le conseguenze di quel gran rifiuto. E’ stato creato come pallida alternativa l’ufficio di Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri, affidato alla signora Catherine Ashton. Questo ufficio però non ha poteri reali, se non un ruolo di rappresentanza sostanzialmente privo di ricadute concrete in situazioni controverse.
La presenza scenica di piccoli Stati come l’Italia, presi da soli, è insufficiente a contrastare le pretese dei nuovi giganti come l’India. Le nuove potenze inoltre sembrano avere una concezione di Stato di diritto piuttosto elastica, se vogliamo esprimerci diplomaticamente. Molti di questi Paesi, che sono diventati potenze economiche dalle quali noi Europei dipendiamo sempre più per il nostro export e per le forniture di energia, interpretano le norme internazionali e le loro stesse leggi interne in modo spregiudicato, alcuni sono preda di estremismi religiosi o ideologie fuori dal tempo, altri sono in mano a dittatori e clan clientelari inguardabili.
Prepariamoci a molti «casi Marò» non solo tra Italia e India ma anche tra altri Paesi europei e nuove potenze economiche globali, almeno sino a quando l’Unione europea non si darà gli strumenti per parlare ad altezza d’occhi con i nuovi giganti, a partire da una politica estera comune e da un Ministro degli affari esteri che la incarni credibilmente, sui teatri di conflitto giuridico e (purtroppo) anche militare del mondo. Pochi cittadini europei sembrano consapevoli dell’importanza di trovarsi in Europa oggi, non per considerazioni economiche o nazionalistiche, ma per la molto reale difesa della nostra stessa indipendenza e quotidianità di vita. L’Unione europea, dal canto suo, sembra mettercela tutta a screditarsi presso i suoi cittadini, come indica la triste questione dei conti correnti bancari di Cipro. Al di là di asettiche e ragionevolissime considerazioni di bilancio, a chi è venuta un’idea simile?
L’Europa non è solo l’Unione europea. I 47 Stati che si riconoscono nel Consiglio d’Europa e nei valori della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo è forse tempo che si diano una scossa. Anche chi è fuori dall’Unione ha interesse che essa funzioni e prenda una forma tale da riuscire a difendere gli interessi di tutti. Non solo gli interessi economici, importantissimi, ma anche quei valori fondamentali di civiltà e diritto che noi Europei ci siamo conquistati con il sangue e altri popoli no, anche se fanno la voce grossa, e dimenticano che quel che sanno l’hanno imparato, spesso, proprio guardando alla nostra lunga storia.
| ©2013 >Luca Lovisolo