Magazine Religione
Ogni giorno, verso le otto del mattino, io mi aggiro per i corridoi per raggiungere la classe che mi aspetta, e do e ricevo i saluti degli oltre ottocento studenti del liceo romano in cui insegno religione cattolica. Di questi, più della metà sono miei studenti. Un professore di religione ha una sola ora a settimana per poter insegnare qualcosa su Dio, brevi cenni sull'universo e il senso della sua esistenza, una bella impresa non c’è che dire, un colpo solo come dice De Niro nel Cacciatore.
Un’ora sola vuol dire anche avere diciotto classi, una cifra impressionante comparata con quella degli altri docenti: il collega di educazione fisica, che subito dopo di me ne ha più di tutti gli altri, con due ore settimanali, ne ha solo la metà, nove. Diciotto classi vuol dire circa cinquecento studenti; gli altri colleghi io non li vedo proprio, un po’ come Juventus-Albino Leffe.
Alla fine, per varie applicazioni della proprietà transitiva, i ragazzi del liceo Albertelli io li conosco tutti; è il privilegio e l’onere della mia professione. Per la legge dei grandi numeri lo sforzo maggiore di un professore di religione è quello di memorizzare volti e nomi di questa tribù migrante, ragazzi che entrano piccoli ed escono grandi, trasformati sicuramente nel fisico e, si spera, anche nello spirito.
Il momento fondamentale è allora quello dell’appello. Io lo faccio sempre, non solo alla prima ora per segnare gli assenti. È per me un modo per fissare i nomi e i volti, e poi è un’occasione per spiegare ai ragazzi del primo anno che non si tratta di una mera procedura burocratica ma qualcosa di molto significativo: qualcuno li chiama, fa il loro nome, e loro rispondono 'presente!'. Non è poco.
C’è un mondo intero in questi pochi secondi. C’è il nome e c’è il volto, due cose che rimarranno, per sempre. E c’è la vocazione, e la sequela.
Cito Benedetto XVI: «La vita comincia con una chiamata perché tutta la vita è una risposta ad una chiamata». E poi abbasso il livello (non si può sempre stare a vette troppo elevate) e cito la battuta più famosa del cartone animato Kung-Fu Panda: «Ieri è storia, domani è mistero, oggi è un dono, per questo si chiama presente». Mi tocca citarla anche perché, scopro, sgomento, che c’è un’altra parola che si è perduta, una parola preziosissima: presente.
Non sanno più, questi ragazzi, che in italiano (ma anche in inglese) presente vuol dire proprio 'dono'. Devo intervenire, urgentemente: «Ecco che con quella parolina non state solo dicendo che non siete assenti, ma state rivelando, anche a voi stessi, la vostra più profonda verità: voi siete un dono, ogni uomo lo è. In fondo di questo parleremo per i prossimi cinque anni».
L’oneroso privilegio ora può cominciare.
L’appello e la risposta 'presente': dono dimenticato, di Andrea Monda in Avvenire del 1 ottobre 2014
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