Primo Levi – Rumkowski, il re dei giudei (da “I sommersi e i salvati”)

Creato il 03 agosto 2012 da Carusopascoski

“Il termine – zona grigia – è stato introdotto da Primo Levi in uno dei più importanti libri della seconda metà del XX secolo, “I sommersi e i salvati”.
(…) Levi sollevava il problema della «tendenza manichea a fuggire le mezze tinte», secondo cui non esisterebbero realtà intermedie tra vittime e persecutori. Naturalmente parlava del Lager, ma anche di tutte quelle situazioni e luoghi dove si trovano a convivere centinaia o migliaia di persone, dalle caserme agli uffici, dagli ospedali alle fabbriche, là dove si produce quella dialettica di potere tra un vertice che comanda e un una base che ubbidisce. In mezzo c’è appunto la zona grigia, quella di coloro che in vario modo e a vario titolo e responsabilità collaborano al funzionamento della macchina di potere. Levi voleva far capire che questa zona possiede «una struttura interna incredibilmente complicata” e che “l’ascesa dei privilegiati, non solo nel Lager ma in tutte le convivenze umane, è un fenomeno angosciante ma immancabile: essi sono assenti solo nelle utopie” o appunto, sui libri di storia che ognuno di noi ha studiato a scuola.
Il virgolettato di questa introduzione al brano di Levi estrapolato dal capitolo “La zona grigia” è ripreso da un articolo di Marco Belpoliti (La Stampa.it, 27/9/2006) ed appunto ritrae Mordechai Chaim Rumkowski, “industriale polacco di religione ebraica ed attivista sionista che ricoprì il ruolo di presidente del Judenrat (consiglio ebraico) nominato dai nazisti all’interno del ghetto di Łódź” (Wikipedia), in cui mostrò sempre grande zelo e abilità organizzativa, promulgando nel tempo regolamenti sempre più dispotici nella convinzione che la produttività ebraica avrebbe salvato le loro vite, imposta poi attraverso dodici ore di lavoro giornaliero in terribili condizioni producendo divise, oggetti in legno, carpenteria e materiale elettrico per la Wehrmacht tedesca.
Autore del celebre e tremendo discorso pubblico “Datemi i vostri figli” (e del quale un estratto è inserito oltre, come introduzione al testo di Levi) in cui impose la consegna dei bambini e degli anziani per la deportazione, affinché almeno i più forti potessero sopravvivere ma così innescando il perverso meccanismo secondo cui le vittime venivano trasformate in carnefici, Rumkoski è un esempio della plateale ambiguità etica che le conseguenze degli ingranaggi più nefasti della storia possono innescare. Non a caso dopo qualche decennio, Emanuele Severino (uno dei più grandi protagonisti dell’attuale dibattito filosofico internazionale)  indica che “l’etica è l’amministrazione del divenire”. N’è riprova la pessima amministrazione del divenire del Terzo Reich e quella ottima del ghetto di Łódź da parte di Rumkowski (dal punto di vista della mera produttività), opposti e complementari esempi che sono ancora lì ad indicarci (secondo l’interpretazione di Levi) come l’affacciarsi di etiche superiori, talvolta, rechi in sè un abisso del divenire.

“Un atroce colpo si è abbattuto sul ghetto. Ci viene chiesto di consegnare quello che di più prezioso possediamo – gli anziani ed i bambini. Sono stato giudicato indegno di avere un figlio mio e per questo ho dedicato i migliori anni della mia vita ai bambini. Ho vissuto e respirato con i bambini e mai avrei immaginato che sarei stato obbligato a compiere questo sacrificio portandoli all’altare con le mie stesse mani. Nella mia vecchiaia, stendo le mie mani ed imploro: Fratelli e sorelle! Passatemeli! Padri e madri! Datemi i vostri figli!”

Mordechai Chaim Runkowski, 4 settembre 1942

Primo Levi – I sommersi e i salvati (estratto dal capitolo “La zona grigia)

Al mio ritorno da Auschwitz mi sono trovato in tasca una curiosa moneta in lega leggera, che conservo tuttora. È graffiata e corrosa; reca su una faccia la stella ebraica (lo “Scudo di Davide”), la data 1943 e la parola getto, che alla tedesca si legge ghetto; sull’altra faccia, le scritte QUITTUNG ÜBER 10 MARK e DER ÄLTESTE DER JUDEN IN LITZMANNSTADT, e cioè rispettivamente Quietanza su 10 marchi e Il decano degli ebrei in Litzmannstadt: era insomma una moneta interna di un ghetto. Per molti anni ne ho dimenticato l’esistenza, poi, verso il 1974, ho potuto ricostruirne la storia, che è affascinante e sinistra.
Col nome di Litzmannstadt, in onore di un generale Litzmann vittorioso sui russi nella prima guerra mondiale, i nazisti avevano ribattezzato la città polacca di Lódz. Negli ultimi mesi del 1944 gli ultimi superstiti del ghetto di Lódz erano stati deportati ad Auschwitz: io devo aver trovato sul suolo del Lager quella moneta ormai inutile.
Nel 1939 Lódz aveva 750.000 abitanti, ed era la più industriale delle città polacche, la più “moderna” e la più brutta: viveva sull’industria tessile, come Manchester e Biella, ed era condizionata dalla presenza di una miriade di stabilimenti grandi e piccoli, per lo più antiquati già allora. Come in tutte le città di una certa importanza dell’Europa orientale occupata, i nazisti si affrettarono a costituirvi un ghetto, ripristinandovi, aggravato dalla loro moderna ferocia, il regime dei ghetti del medioevo e della controriforma. Il ghetto di Lódz, aperto già nel febbraio 1940, fu il primo in ordine di tempo, ed il secondo, dopo quello di Varsavia, come consistenza numerica: giunse a contenere più di 160.000 ebrei, e fu sciolto solo nell’autunno del 1944. Fu dunque il più longevo dei ghetti nazisti, e ciò va attribuito a due ragioni: la sua importanza economica e la conturbante personalità del suo presidente.
Si chiamava Chaim Rumkowski: già piccolo industriale fallito, dopo vari viaggi ed alterne vicende si era stabilito a Lódz nel 1917. Nel 1940 aveva quasi sessant’anni ed era vedovo senza figli; godeva di una certa stima, ed era noto come direttore di opere pie ebraiche e come uomo energico, incolto ed autoritario. La carica di Presidente (o Decano) di un ghetto era intrinsecamente spaventosa, ma era una carica, costituiva un riconoscimento sociale, sollevava di uno scalino e conferiva diritti e privilegi, cioè autorità: ora Rumkowski amava appassionatamente l’autorità. Come sia pervenuto all’investitura, non è noto: forse si trattò di una beffa nel tristo stile nazista (Rumkowski era, o sembrava, uno sciocco dall’aria per bene, insomma uno zimbello ideale}; forse intrigò egli stesso per essere scelto, tanto doveva essere forte in lui la voglia del potere. È provato che i quattro anni della sua presidenza, o meglio della sua dittatura, furono un sorprendente groviglio di sogno megalomane, di vitalità barbarica e di reale capacità diplomatica ed organizzativa. Egli giunse presto a vedere se stesso in veste di monarca assoluto ma illuminato, e certo fu sospinto su questa via dai suoi padroni tedeschi, che giocavano bensì con lui, ma apprezzavano i suoi talenti di buon amministratore e d’uomo d’ordine. Da loro ottenne l’autorizzazione a battere moneta, sia metallica (quella mia moneta) sia cartacea, su carta a filigrana che gli fu fornita ufficialmente. In questa moneta erano pagati gli operai estenuati del ghetto; potevano spenderla negli spacci per acquistarvi le loro razioni alimentari, che ammontavano in media a 800 calorie giornaliere (ricordo, di passata, che ne occorrono almeno 2.000 per sopravvivere in stato di assoluto riposo}.
Da questi suoi sudditi affamati, Rumkowski ambiva riscuotere non solo obbedienza e rispetto, ma anche amore: in questo le dittature moderne differiscono dalle antiche. Poiché disponeva di un esercito di eccellenti artisti ed artigiani, pronti ad ogni suo cenno contro un quarto di pane, fece disegnare e stampare francobolli che recano la sua effigie, con i capelli e la barba candidi nella luce della Speranza e della Fede. Ebbe una carrozza trainata da un ronzino scheletrico, e su questa percorreva le strade del suo minuscolo regno, affollate di mendicanti e di postulanti. Ebbe un manto regale, e si attorniò di una corte di adulatori e di sicari; dai suoi poeti-cortigiani fece comporre inni in cui si celebrava la sua “mano ferma e potente”, e la pace e l’ordine che per virtù sua regnavano nel ghetto; ordinò che ai bambini delle nefande scuole, ogni giorno devastate dalle epidemie, dalla denutrizione e dalle razzie tedesche, fossero assegnati temi in lode “del nostro amato e provvido Presidente”. Come tutti gli autocrati, si affrettò ad organizzare una polizia efficiente, nominalmente per mantenere l’ordine, di fatto per proteggere la sua persona e per imporre la sua disciplina: era costituita da seicento guardie armate di bastone, e da un numero imprecisato di spie. Pronunciò molti discorsi, di cui alcuni ci sono stati conservati, ed il cui stile è inconfondibile: aveva adottato la tecnica oratoria di Mussolini e di Hitler, quella della recitazione ispirata, dello pseudo-colloquio con la folla, della creazione del consenso attraverso il plagio ed il plauso. Forse questa sua imitazione era deliberata; forse era invece una identificazione inconscia col modello dell’”eroe necessario” che allora dominava l’Europa ed era stato cantato da D’Annunzio; ma è più probabile che il suo atteggiamento scaturisse dalla sua condizione di piccolo tiranno, impotente verso 1′alto ed onnipotente verso il basso. Chi ha trono e scettro, chi non teme di essere contraddetto né irriso, parla così.
Eppure la sua figura fu più complessa di quanto appaia fin qui. Rumkowski non fu soltanto un rinnegato ed un complice; in qualche misura, oltre a farlo credere, deve essersi progressivamente convinto egli stesso di essere un messia, un salvatore del suo popolo, il cui bene, almeno ad intervalli, egli deve avere pure desiderato. Occorre beneficare per sentirsi benefici, e sentirsi benefici è gratificante anche per un satrapo corrotto. Paradossalmente, alla sua identificazione con gli oppressori si alterna o si affianca un’identificazione con gli oppressi, poiché l’uomo, dice Thomas Mann, è una creatura confusa; e tanto più confusa diventa, possiamo aggiungere, quanto più è sottoposta a tensioni: allora sfugge al nostro giudizio, così come impazzisce una bussola al polo magnetico.
Benché sia stato costantemente disprezzato e deriso dai tedeschi, è probabile che Rumkowski pensasse a se stesso non come a un servo ma come a un Signore. Deve aver preso sul serio la propria autorità: quando la Gestapo si impadronì senza preavviso dei “suoi” consiglieri, accorse con coraggio in loro aiuto, esponendosi a beffe e schiaffi che seppe sopportare con dignità. Anche in altre occasioni, cercò di mercanteggiare con i tedeschi, che esigevano sempre più tela da Lódz, e da lui contingenti sempre più alti di bocche inutili (vecchi, bambini, ammalati) da mandare alle camere a gas di Treblinka e poi di Auschwitz. La stessa durezza con cui si precipitò a reprimere i moti d’insubordinazione dei suoi sudditi (esistevano, a Lódz come in altri ghetti, nuclei di temeraria resistenza politica, di radice sionista, bundista o comunista) non proveniva tanto da servilismo verso i tedeschi, quanto da “lesa maestà”, da indignazione per l’oltraggio inferto alla sua regale persona.
Nel settembre 1944, poiché il fronte russo si stava avvicinando, i nazisti diedero inizio alla liquidazione del ghetto di Lódz. Decine di migliaia di uomini e donne furono deportati ad Auschwitz, “anus mundi”, luogo di drenaggio ultimo dell’universo tedesco; esausti com’erano, furono quasi tutti soppressi immediatamente. Rimasero nel ghetto un migliaio di uomini, a smobilitare il macchinario delle fabbriche ed a cancellare le tracce della strage: essi furono liberati dall’Armata Rossa poco dopo, ed a loro si debbono le notizie qui riportate.
Sul destino finale di Chaim Rumkowski esistono due versioni, come se l’ambiguità sotto il cui segno aveva vissuto si fosse protratta ad avvolgerne la morte. Secondo la prima versione, nel corso della liquidazione del ghetto egli avrebbe cercato di opporsi alla deportazione di suo fratello, da cui non voleva separarsi; un ufficiale tedesco gli avrebbe allora proposto di partire volontariamente insieme con lui, ed egli avrebbe accettato. Un’altra versione afferma invece che il salvataggio di Rumkowski sarebbe stato tentato da Hans Biebow, altro personaggio ammantato di doppiezza. Questo losco industriale tedesco era il funzionario responsabile dell’amministrazione del ghetto, e in pari tempo ne era 1′appaltatore: il suo era dunque un incarico delicato, perché le fabbriche tessili di Lódz lavoravano per le forze armate. Biebow non era una belva: non gli interessava creare sofferenze inutili né punire gli ebrei per la loro colpa di essere ebrei, bensì guadagnare sulle forniture, nei modi leciti e negli altri. Il tormento del ghetto lo toccava, ma solo per via indiretta; desiderava che gli operai schiavi lavorassero, e perciò desiderava che non morissero di fame: il suo senso morale si fermava qui. Di fatto, era il vero padrone del ghetto, ed era legato a Rumkowski da quel rapporto committente-fornitore che spesso sfocia in una ruvida amicizia. Biebow, piccolo sciacallo troppo cinico per prendere sul serio la demonologia della razza, avrebbe voluto rimandare a oltranza lo scioglimento del ghetto, che per lui era un ottimo affare, e preservare dalla deportazione Rumkowski, della cui complicità si fidava: dove si vede come spesso un realista sia obiettivamente migliore di un teorico. Ma i teorici delle SS erano di parere contrario, ed erano i più forti. Erano gründlich, radicali: via il ghetto e via Rumkowski.
Non potendo provvedere diversamente, Biebow, che aveva buone aderenze, consegnò a Rumkowski una lettera indirizzata al comandante del Lager di destinazione, e gli garantì che essa lo avrebbe protetto e gli avrebbe assicurato un trattamento di favore. Rumkowski avrebbe chiesto a Biebow, ed ottenuto, di viaggiare fino ad Auschwitz, lui e la sua famiglia, col decoro che si addiceva al suo rango, e cioè in un vagone speciale, agganciato in coda alla tradotta di vagoni merci stipati di deportati senza privilegi: ma il destino degli ebrei in mano tedesca era uno solo, fossero vili od eroi, umili o superbi. Né la lettera né il vagone valsero a salvare dal gas Chaim Rumkowski, re dei Giudei.

Rumkowski e Hans Biebow, il comandante in capo nazista del ghetto di Lodz ai tempi dell’occupazione tedesca

Una storia come questa non è chiusa in sé. È pregna, pone più domande di quante ne soddisfaccia, riassume in sé l’intera tematica della zona grigia, e lascia sospesi. Grida e chiama per essere capita, perché vi si intravede un simbolo, come nei sogni e nei segni del cielo.
Chi è Rumkowski? Non è un mostro, e neppure un uomo comune; tuttavia molti intorno a noi sono simili a lui. I fallimenti che hanno preceduto la sua “carriera” sono significativi: gli uomini che da un fallimento ricavano forza morale sono pochi. Mi pare che nella sua storia si possa riconoscere in forma esemplare la necessità quasi fisica che dalla costrizione politica fa nascere l’area indefinita dell’ambiguità e del compromesso. Ai piedi di ogni trono assoluto gli uomini come il nostro si affollano per ghermire la loro porzioncina di potere: è uno spettacolo ricorrente, ritornano alla memoria le lotte a coltello degli ultimi mesi della seconda guerra mondiale, alla corte di Hitler e fra i ministri di Salò; uomini grigi anche questi, ciechi prima che criminali, accaniti a spartirsi i brandelli d’una autorità scellerata e moribonda. Il potere è come la droga: il bisogno dell’uno e dell’altra è ignoto a chi non li ha provati, ma dopo l’iniziazione, che (come per Rumkowski) può essere fortuita, nasce la dipendenza e la necessità di dosi sempre più alte; nasce anche il rifiuto della realtà e il ritorno ai sogni infantili di onnipotenza. Se è valida l’interpretazione di un Rumkowski intossicato dal potere, bisogna ammettere che l’intossicazione è sopraggiunta non a causa, ma nonostante l’ambiente del ghetto; che cioè essa è così potente da prevalere perfino in condizioni che sembrerebbero tali da spegnere ogni volontà individuale. Di fatto, era ben visibile in lui, come nei suoi modelli più famosi, la sindrome del potere protratto e incontrastato: la visione distorta del mondo, l’arroganza dogmatica, il bisogno di adulazione, l’aggrapparsi convulso alle leve di comando, il disprezzo delle leggi.
Tutto questo non esonera Rumkowski dalla sua responsabilità. Che dall’afflizione di Lódz un Rumkowski sia emerso, duole e brucia; se fosse sopravvissuto alla sua tragedia, ed alla tragedia del ghetto che lui ha inquinata sovrapponendovi la sua immagine di istrione, nessun tribunale lo avrebbe assolto, né certo lo possiamo assolvere noi sul piano morale. Ha però delle attenuanti: un ordine infero, qual era il nazionalsocialismo, esercita uno spaventoso potere di corruzione, da cui è difficile guardarsi. Degrada le sue vittime e le fa simili a sé, perché gli occorrono complicità grandi e piccole. Per resistergli, ci vuole una ben solida ossatura morale, e quella di cui disponeva Chaim Rumkowski, il mercante di Lódz, insieme con tutta la sua generazione, era fragile: ma quanto forte è la nostra, di noi europei di oggi? Come si comporterebbe ognuno di noi se venisse spinto dalla necessità e in pari tempo allettato dalla seduzione?
La storia di Rumkowski è la storia incresciosa e inquietante dei Kapos e dei funzionari dei Lager; dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il capo ma acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me”.
In questa fascia di mezze coscienze va collocato Rumkowski, figura simbolica e compendiaria. Se in alto o in basso, è difficile dire: lui solo lo potrebbe chiarire se potesse parlare davanti a noi, magari mentendo, come forse sempre mentiva, anche a se stesso; ci aiuterebbe comunque a comprenderlo, come ogni imputato aiuta il suo giudice, anche se non vuole, anche se mente, perché la capacità dell’uomo di recitare una parte non è illimitata.
Ma tutto questo non basta a spiegare il senso di urgenza e di minaccia che emana da questa storia. Forse il suo significato è più vasto: in Rumkowski ci rispecchiamo tutti, la sua ambiguità è la nostra, connaturata, di ibridi impastati di argilla e di spirito; la sua febbre è la nostra, quella della nostra civiltà occidentale che “scende all’inferno con trombe e tamburi”, ed i suoi orpelli miserabili sono l’immagine distorta dei nostri simboli di prestigio sociale. La sua follia è quella dell’Uomo presuntuoso e mortale quale lo descrive Isabella in Misura per misura, l’Uomo che,

…ammantato d’autorità precaria,
di ciò ignaro di cui si crede certo,
- della sua essenza, ch’è di vetro -, quale
una scimmia arrabbiata, gioca tali
insulse buffonate sotto il cielo
da far piangere gli angeli.

Come Rumkowski, anche noi siamo così abbagliati dal potere e dal prestigio da dimenticare la nostra fragilità essenziale: col potere veniamo a patti, volentieri o no, dimenticando che nel ghetto siamo tutti, che il ghetto è cintato, che fuori del recinto stanno i signori della morte, e che poco lontano aspetta il treno.


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