Cinema e ballo, storicamente, sono sempre andati molto d’accordo. Anzi, si potrebbe addirittura affermare che, dagli opulenti musical hollywodiani ai più recenti film basati sull’infallibile binomio amore e danza, questo genere non ha mai conosciuto incertezze.
Ed è proprio in questo filone d’oro, così sfruttato eppure ancora così fruttifero, che si inserisce Body Language, il lungometraggio distribuito da Moviemax che uscirà in Italia l’8 agosto.
La storia, semplice e funzionale, gira intorno a cinque ballerini olandesi che, alla vigilia della partenza alla volta di New York per un’importantissima competizione mondiale, scoprono che i fondi previsti per coprire le spese di viaggio e alloggio sono venuti a mancare. Determinati a tutto per seguire il loro sogno, i ragazzi decidono però di non darsi per vinti e, impavidi, volano verso la Grande Mela. Qui troveranno due sfide ad attenderli al varco: vincere la gara e, soprattutto, sopravvivere senza un soldo in tasca nell’enorme, tentacolare città americana.
Era il 1980 quando Fame-Saranno Famosi di Alan Parker riuscì ad introdurre un format in grado di portare sul grande schermo arti come il canto e il ballo in una cornice differente da quella del musical e a fondare le basi di un sottogenere la cui eredità continua ancora oggi a riempire i cinema di tutto il mondo. La vicenda di Fame, infatti, è paradigmatica, poiché, avvicinandosi ad alcuni artisti della High School of Performing Arts di Manhattan e seguendone prima i provini di ammissione alla scuola e poi gli anni di studio, rende protagoniste incontrastate la musica e l’arte del movimento senza appesantire la trama né sostenere i costi di un film musicale.
Come controprova della genialità della formula, abbellita qua e là da una storia d’amore o di riscatto sociale, basta citare alcuni titoli dal fascino inconfondibile: da Flashdance (1983), dove la protagonista operaia sogna di entrare in una prestigiosa Accademia di danza, a Dirty Dancing (1987), che vede un Patrick Swayze e una Jennifer Grey amanti a ritmo di mambo, da Save the Last Dance (2001), in cui una ballerina classica (Julia Stiles) si innamora di un professionista dell’hip hop (Sean Patrick Thomas) a Ti va di Ballare? (2006), dove Antonio Banderas insegnante di Standars (Walzer, Fox Trot, Tango) decide di usare le regole del ballo come strumento di recupero per ragazzi difficili, la danza non ha mai conosciuto crisi.
Nonostante gli States siano stati i pionieri del genere, i film “ballati” stanno lentamente trovando terreno fertile anche in Europa. Così, sull’esempio dell’americano Step Up di Anne Fletcher, successo mondiale interpretato da Channing Tatum, nel 2010 appare la prima produzione inglese, Street Dance di Max Giwa e Dania Pasquini, che mostra delle lotte “all’ultimo passo” tra crew londinesi e, oggi, Body Language, il film proveniente dai Paesi Bassi diretto da Jeffrey Elmont, si preannuncia come la ciliegina su una torta già deliziosa.
Resta solo un interrogativo: l’esordiente regista olandese riuscirà a sprigionare la forza del linguaggio del corpo del titolo e a reggere il confronto con i suoi predecessori? Non resta che attendere l’8 agosto per rispondere e per scoprire se il giudizio del pubblico-giuria lo decreterà vincitore oppure no.
di Marta Pirola