SO CHE PASSATE notte insonni, tormentati da questa angosciosa domanda: nello splendido post L’Art Déco a Bujumbura che Dragor ha pubblicato nel 2011 non c’è quel grande classico del Déco bujumbureno che si chiama ospedale Prince Rwagasore, quello splendido mausoleo cosí funereo che al confronto l’obitorio di Kiev sembra Les Folies Bergère, cosí metafisico che al confronto De Chirico sembra un reality show. Come mai? Dragor, sempre cosí preciso, puntuale e soddisfacente, si è scordato di quel capolavoro? Che cominci a soffrire di Alzheimer? Oppure, un’ipotesi più verosimile, che quell’edificio sia legato a una fase della sua vita che preferisce dimenticare?
BRAVI! Dopo esservi rigirati centinaia di volte e avere fissato il soffitto per buona parte della notte, alle ore piccole del mattino avete avuto l’illuminazione giusta. Per premiarvi, Dragor ha affrontato per voi i fantasmi del passato e oggi vi offre l’ospedale Prince Rwagasore! E non soltanto, ma vi racconta quello che è successo!
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Il Prince Rwagasore in tutto il suo splendore rétro
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E come si presenta oggi
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UN TERRIBILE GIORNO dell’ottobre 1988 un Dragor più morto che vivo veniva ricoverato al Prince Rwagasore. Da una settimana non mangiava e non beveva. Poiché le sue difese immunitarie si erano ridotte praticamente a zero, microbi e virus di ogni specie si davano alla pazza gioia nel suo organismo devastato. Perché si trovava in quelle condizioni? Perché una settimane prima, sulle montagne di Bugarama, aveva visto una banda di Hutu massacrargli quanto aveva di più caro. Cosí il guscio vuoto di Dragor veniva affidata a un medico belga, il dottor Jean-Marc Pulaert. Ma questo medico era amico per la pelle di un altro medico belga, il cattolico Julien Vyncke che 29 anni prima, per ordine dei preti Léon Classe e André Perraudin, oltre che del governo coloniale belga, in quello stesso ospedale aveva assassinato con un’iniezione letale il re rwandese Mutara III, reo di avere chiesto all’ONU l’indipendenza del Rwanda e la partenza dei missionari, oltre che di avere detto che in Rwanda non esistevano etnie ma solo cittadini, contraddicendo cosí la politica razzista dei belgi e dei preti.
COME HA VISTO DRAGOR, Pulaert si è fregato le mani. «Ma bene», ha pensato. «Ecco qui il tizio che sostiene la politica anticlericale del presidente Baghaza, che va a vedere i missionari che fanno fagotto inquadrati dai militari e gli fa pure il gesto dell’ombrello. Adesso lo arrangio io.» Cosí, pur sapendo che aveva una forma grave di malaria, gli ha diagnosticato una polmonite in modo che il virus malarico potesse ucciderlo.
MA AVEVA FATTO I CONTI senza Dragor. Benché moribondo, nutrito a forza dalla donna che in seguito sarebbe diventata sua moglie, con un disperato sussulto di vitalità Dragor la incaricava di chiamare un medico estraneo all’ospedale, il dottor Dieudonné Kaneza, quindi ordinava a Kaneza di curarlo con iniezioni di clorochina. Il medico obbediva, eludendo la sorveglianza di Pulaert e dell’infermiera assassina Joséphine Bizimana. Cosí, grazie alle iniezioni e alle amorevoli cure della sua futura moglie, Dragor si riprendeva e 2 giorni dopo si autodimetteva dall’ospedale, non senza fare il gesto dell’ombrello anche a Pulaert e una pernacchia a Joséphine. 2 mesi dopo sarebbe partito per Parigi con la sua salvatrice che già portava nel ventre la piccola Minou.
NEL 2011 ho cercato Pulaert per vendicarmi ma mi hanno detto che era tornato in Belgio dove nel 2004 un cancro alla gola aveva sbarazzato il mondo della sua perniciosa presenza.
Dragor