Il gup di Roma ha rinviato a giudizio l’ex capo della protezione civile, l’imprenditore e l’ex presidente alle opere pubbliche Angelo Balducci e altri 15 persone coinvolte
nell’inchiesta sugli appalti del G8 e alcuni “Grandi eventi”.
Sul genio maligno delle emergenze, sul tuttofare del malaffare pende l’accusa di corruzione, a Balducci e Anemone, oltre a diversi episodi di corruzione, viene contestata l’associazione per delinquere, come anche all’ex commissario straordinario ai mondiali di nuoto Roma 2009 Claudio Rinaldi, al funzionario pubblico Mauro Della Giovampaola, all’ex provveditore alle opere pubbliche della Toscana Fabio De Santis, e altre 11 persone, indagate nell’inchiesta sul G8 e i ‘Grandi eventi’. Il loro profittevole brand venne definito dall’immaginifico gip di Firenze “gelatinoso”, per spiegarne la capacità di penetrazione e infiltrazione diffusa e velenosa nel sistema degli appalti e delle commesse pubbliche e che influenzò i mondiali di nuoto a Roma del 2009, il G8 della Maddalena, le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia e probabilmente molto altro.
Corsero molto soldi, sia sa, ma anche benefici indiretti: massaggi, prestazioni sessuali, favori “immateriali”, facilitazioni di vario genere. Ne testimonia il taccuino di Anemone, un diario minuzioso di offerte, regalie, bustarelle e valigette, ma anche “case all’insaputa” insieme a frullatori, a dimostrazione che quando si prende festosamente al via della corruzione ci si mette in vendita e si compra anche con poco, che quando il marketing diventa marchetta c’è una voluttà irresistibile nel farsi regalare qualcosa che non ci si è conquistati col lavoro e la fatica, fosse anche una centrifuga per l’insalata o una carezza prezzolata, gentilmente offerta.
Per più di un decennio, caldeggiata e favorita, sostenuta e propagandata da supporter bipartisan la cricca del leggendario generale delle emergenze, stretta in un patto criminale con grandi e piccoli affaristi e amministratori, ha truccato il mercato e saccheggiato le risorse pubbliche, non solo indisturbata, ma addirittura promossa a mito dell’efficienza decisionista, quello di un manager che ne ricorda altri, altrettanto irrispettosi di leggi e regole, altrettanto sleali nei confronti dell’interesse generale, altrettanto infedeli del bene comune, quando non addirittura delle vite degli altri. Per più di decennio, «uno stabile sodalizio a delinquere» ha governato il Sistema dei Grandi appalti pubblici di questo Paese, «pilotandone le scelte», saccheggiandone le risorse, truccando il mercato, umiliando le regole di imparzialità e trasparenza, «un´associazione per delinquere ha commesso una serie indeterminata di corruzioni, abusi di ufficio, rivelazioni di segreto d´ufficio, favoreggiamenti, mettendo la funzione dei funzionari pubblici a disposizione di privati imprenditori, tra cui principalmente Diego Anemone e il gruppo di imprese a lui riconducibile». Perché, «di fatto, i funzionari pubblici hanno operato a servizio del privato e consentito che la gestione degli appalti avvenisse in maniera del tutto antieconomica per le casse pubbliche a favore degli imprenditori», e dei loro astronomici «profitti illeciti». In soli quattro anni, dal 2004 al 2009, e per il solo Diego Anemone e il suo occulto socio, il grand commis di Stato ed ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, una somma pari a 75 milioni 523.617, 88 euro.
E dietro a tutto questo, lui, icona truccata del lodevole pragmatismo affaccendato rispetto alla tradizionale indolenza italiana, mai abbastanza rimpianta se il solerte adoperarsi ha significato ruberie, malversazioni, soprusi, commessi col sostegno di governi e forze politiche che avevano sancito l’intoccabilità del genio dell’energica efficienza, sbrigativa e autoritaria. C’è voluta la Guzzanti con un film per cominciare a svelarne la geometrica potenza maligna, dopo che le denunce dell’implacabile, incivile e perversa militarizzazione dell’Aquila aveva seminato dispersione di persone, storia, memoria, affetti, lavoro, bellezza, avevano come risposta l’immancabile mantra: lasciamolo lavorare.
E altrettanto si sentiva dire quando ogni evento celebrativo, ogni occasione istituzionale venivano fatti decantare in modo d a diventare ingovernabili stati di crisi, in modo da affidarne l’indiscussa gestione dispotica a lui, genius loci dell’organizzazione, invasivo e perfidamente meticoloso fino a dettare regole di abbigliamento ai terremotati confinati nelle tende.
Superprotetto, superpotente, supermuscolare, supercialtrone con la strafottenza di chi sa che in alto non si può fare a meno di lui, Bertolaso è stato a un tempo suggeritore e strumento dell’emergenza come sistema di governo, esercitata con tenacia, perché si sa che quando una crisi degenera si fa spazio a leggi eccezionali, commissari straordinari, procedure d’urgenza: insomma non si va tanto per il sottile, si spende e si spande, si attribuiscono poteri speciali a figuri specializzati in scorciatoie e licenze, abusi e prepotenze. E se non si ha a disposizione un terremoto, se può provocare uno artificiale, grazie alla pressione di eventi megalomani, opere inutili per ospitare liturgie futili, celebrazioni sibaritiche che suonano offensive in tempi di carestia e di inimicizia.
Artefice e strumento a un tempo, Bertolaso, per il quale si studiarono come da tradizione, leggi ad personam indirizzate alla privatizzazione totale della protezione civile. Così come per legge i governi Berlusconi che si sono avvicendati hanno “personalizzato” su misura delle cricche le procedure di appalto, prima sospendendo l’efficacia della Legge Merloni, poi con la trionfale entrata in vigore della legge obiettivo e lo svuotamento dei poteri dell’inane Commissione di Vigilanza, infine con il codice De Lise. Per non dire, ora, della produzione insensata del succedersi di semplificazioni, Fare e così via, pronti per coronare l’Expo e le grandi opere al servizio della criminalità mafiosa e diversamente mafiosa.
Eh si, magari come Al Capone o il suo erede ideale, Bertolaso andrà in galera per reati contro il patrimonio. Ma dovremmo poter buttare la chiave della sua cella per ben altro. Perché nei giorni immediatamente precedenti al terremoto dell’Aquila, zittiva con qualche fastidio ogni allarme. Allarme peraltro plausibile se ne parla continuamente nelle telefonate che gli uomini della sua squadra gli facevano prima del terremoto. Se tre settimane prima della devastante scossa del 6 aprile, Fabrizio Curcio chiama Bertolaso: «C’è di nuovo quello scemo che ha iniziato a dire … che stanotte ci sarà il terremoto devastante». Lo «scemo» in questione è Giuliani, il ricercatore che aveva annunciato l’arrivo di uno sciame di scosse in Abruzzo, immediatamente denunciato per procurato allarme. E smentito su suo ordine da un comunicato dell’Ingv, oggi anch’esso sotto processo.
Si per questo dovremmo buttare la chiave, se c’è da sospettare che come per la guerra si guardi con favore a un evento sismico per dare avvio alla benefica e redditizia ricostruzione. Se abbiamo a che fare con un golpe delle emergenze, che ha stravolto le regole, smantellato l’edificio delle leggi, cancellato i principi di legalità e messo in piedi un sistema di anti-Stato ai danni della collettività, gettando i semi dell’illegittimità tollerata e poi promossa, della corruzione in sostituzione della trasparenza, della competenza, dell’interesse generale.
Si dice che oggi Bertolaso si sia ritirato come Cincinnato a coltivare il suo orticello, ma dal suo lavoro non possono crescere che mele avvelenate.