Le prime pagine dei giornali sono per la Francia, dove Nicolas Sarkozy ha perso la presidenza dal rivale socialista François Hollande, ma il vero terremoto politico che avrà conseguenze internazionali è avvenuto altrove, in Grecia.
È comprensibile che i più in Italia guardino con malcelata soddisfazione alla caduta di Sarkozy (a dire il vero con uno scarto di voti meno ampio delle previsioni). Il presidente d’origini ebraico-magiare, con la sua eccentrica politica di puissance, non ha esitato a passare sopra gl’interessi della vicina e teoricamente alleata Italia, complice anche la disarmante arrendevolezza del nostro passato governo. Sarkozy, anche laddove ha occasionalmente allentato il tradizionale fronte con Berlino, ha fatto asse con Londra, senza mai dare troppo rilievo politico a Roma, ma mostrando di considerare l’intero Mediterraneo come “territorio di conquista” per la Francia.
Dopo il fallimento dell’iniziativa dell’Unione Mediterranea e la caduta del fido Ben Alì in Tunisia, Parigi ha voluto recuperare terreno spingendo sull’acceleratore del cambiamento di regime in Libia. A dispetto del fatto che il governo di Tripoli avesse siglato un Trattato d’Amicizia e Cooperazione con l’Italia, la Francia non ha esitato a sostenere, e probabilmente fomentare, la rivolta della Cirenaica e di alcune tribù e componenti politiche della società libiche, giungendo alfine ad imporre, contro la volontà di Roma, un intervento armato decisivo per rovesciare il regime del colonnello Gaddafi. Ma dell’affare libico si è già parlato ampiamente a suo tempo, e non è qui il caso di dilungarsi oltre. Rileviamo solo come il discutibile atteggiamento del governo italiano dell’epoca non solo portò l’Italia ad un repentino mutamento di posizione ed alla violazione del trattato italo-libico contro i suoi stessi interessi, ma anche ad abbandonare ogni resistenza all’acquisizione di Parmalat da parte della francese Lactalis e dell’Edison da parte della EDF. In tal modo, il secondo produttore d’elettricità in Italia (Edison per l’appunto) è passato sotto il pieno controllo d’una società che appartiene al 85% allo Stato francese. L’impatto strategico è evidente.
Più sfumato, ma non meno importante, il peso strategico dell’affare Parmalat. Lactalis controllava già Galbani, Invernizzi, Vallelata, Locatelli, Président, Cademartori e Casale Torrealta, ossia una rilevante fetta di mercato del latte in Italia. L’industria del latte nel nostro paese conta 40.700 imprese, già messe a dura prova dall’iniquo sistema delle quote europee (l’Italia consuma 17-18 milioni di tonnellate l’anno, ma è costretta a produrne non più di 10,8); ora Lactalis, scaduto il precedente contratto collettivo che prevedeva un pagamento di 40,7 centesimi al litro ai produttori italiani, sta cercando d’abbassare il prezzo, pare, fino a 32 centesimi: cifra che, secondo i rappresentanti dell’industria nostrana, potrebbe portare a fallimenti di massa in Italia.
Ciò detto, esulando dal caso particolare delle recenti relazioni italo-francesi, resta un fatto: che l’elezione di Hollande non porterà alcuna ventata rivoluzionaria, malgrado i suoi slogan sul cambiamento. Esattamente come accaduto negli USA con Obama, eletto tra mille speranze con la parola “Change” campeggiante negli stendardi, ma poi rivelatosi alquanto conservatore (talvolta per scelta, talaltra per costrizione). Hollande è assertore d’una politica di crescita, in opposizione alla linea finora adottata del puro rigore finanziario, ma una volta terminata la campagna elettorale ed entrato nella stanza dei bottoni, dovrà fare i conti con la realtà della crisi del debito europeo. E con scelte che non è in grado o intenzionato a fare, dal momento che la riduzione del deficit statale e la rinegoziazione dei diritti dei lavoratori fanno parte della sua piattaforma elettorale, in linea col fiscal compact recessivo e neoliberista concordato in sede europea.
La situazione è ben diversa in Grecia. La coalizione che ha sostenuto il cosiddetto “governo tecnico” del professor Lucas Papademos (già alla Federal Reserve of Boston e alla BCE e membro della Trilateral Commission), ossia i partiti Pasok e Nuova Democrazia, secondo i primi dati sono crollati dal 77,5% dei consensi del 2009 al 30-37% attuali. Questo significa che, nel migliore dei casi, i partiti sostenitori della linea economica depressiva avranno dimezzato la propria rappresentatività nel paese. Anche se dovessero riuscire ad ottenere comunque la maggioranza dei seggi in parlamento, il messaggio popolare è chiaro, e lo è ancora più chiaro se si considera che, nelle ultime consultazioni prima della crisi (ossia nel 2007) la loro quota congiunta di consensi s’attestava al 85% degli elettori greci. Stiamo ragionando d’una caduta fino al 55% in cinque anni.
SY.RIZ.A., la coalizione della Sinistra radicale che meno di dieci anni fa faticava ad entrare in Parlamento, è ora il secondo partito più rappresentativo nel paese, col 16-19% dei consensi. SY.RIZ.A. sostiene apertamente la necessità di rinegoziare il debito greco (soluzione che l’anno scorso, nel nostro piccolo, sommessamente proponemmo per l’Italia). Rilevantissimo anche il successo di Greci Indipendenti, scissione dal partito di Destra Nuova Democrazia creata da quei deputati che si rifiutarono di votare per il governo non eletto imposto dall’estero: questa formazione neonata ha incassato subito consensi che oscillano tra il 10% e il 12%, ossia più della metà del partito “genitore”, che da quasi 40 anni domina(va) assieme al PASOK la politica ellenica. In ascesa, seppur più contenuta, anche il partito comunista (KKE), che al 7,5% del 2009 dovrebbe riuscire ad aggiungere fino a due punti percentuali. Solo con difficoltà potrebbe restare in Parlamento il partito ortodosso LAOS, tendenzialmente ostile all’UE ma che ha appoggiato, seppur in maniera critica, il governo Papademos. Ma il risultato che ha davvero del clamoroso è quello di Chrysi Avyi, il partito nazionalista ed anti-immigrazione che ricorre ad un’iconografia che richiama, in maniera nemmeno molto dissimulata, quella del nazismo: pare che avrebbe ottenuto tra il 6% e l’8% dei consensi, entrando per la prima volta in Parlamento.
La Grecia è il paese più colpito dalla crisi del debito europea e, dunque, si trova alla “avanguardia” – seppure un’avanguardia ingrata e non desiderabile. La situazione greca potrebbe presto ripresentarsi in Italia e Spagna, o in altri paesi duramente colpiti dalla crisi. Orbene, la lezione greca conferma che le crisi economiche sistemiche “dinamizzano” non solo il panorama internazionale, ma anche quello socio-politico interno ai singoli Stati. Dopo il ’29 s’assistette alla svolta “statalista” e “anti-finanziarista” del New Deal negli USA, al consolidamento del fascismo in Italia, all’ascesa del nazismo in Germania ed alla realizzazione dello staliniano “socialismo in un solo paese” in URSS. Quattro anni dopo la crisi del 2008 il panorama politico ellenico è sconvolto, soprattutto se si leggono queste elezioni come una tendenza che andrà ad approfondirsi nei mesi ed anni a venire. La seconda lezione è dunque questa: che i media di massa, egemonizzati dal regime in vigore, non sembrano avere un effetto “anestetizzante” sufficiente a neutralizzare simili rivolgimenti. La retorica della “crisi”, di cui si tacciono le cause per dipingerla quasi come un cataclisma naturale o una punizione divina, e del “salvataggio”, la censura o demonizzazione delle opzioni alternative al rigore stagnazionista, non riescono a fermare l’espressione elettorale del malcontento.
Le possibilità sono ora sostanzialmente tre. La prima prevede che i dirigenti europei perseverino nella politica attuale, ignorando i segnali provenienti dalla società: in tale scenario la crisi sociale non farebbe che acuirsi, e con essa l’ascesa di forze nuove che propongono alternative magari anche radicali. La seconda ipotesi è che i centri di potere internazionali che spingono per la linea rigorista (sostanzialmente, la grande finanza e lo Stato tedesco), pur perseverando, cerchino di premunirsi dall’acutizzarsi dell’opposizione promuovendo una svolto anti-democratica. Tale scenario non è affatto così assurdo come potrebbe sembrare a prima vista. Non si dimentichi che il 2011 ha visto l’instaurarsi in Grecia e Italia di governi non eletti, portati al potere dalle pressioni dei “mercati” (ossia dei maggiori agenti in essi: i grandi istituti finanziari e le agenzie di rating), per ottemperare ad agende fissate dall’esterno. E ciò non perché i governi eletti di rifiutassero d’onorare il debito, ma perché i creditori si mostravano scettici della loro capacità di riuscirvi. L’ascesa dell’estrema destra potrebbe offrire un utile pretesto: impedire che si ripetano gli eventi post-1929, quando Hitler riuscì ad essere eletto cancelliere sull’onda della crisi. Tale scenario di reazione anti-democratica del ceto dirigente sarebbe ovviamente molto disdicevole: innanzi tutto perché priverebbe alcuni popoli europei della loro libertà, ed in secondo luogo perché creerebbe uno scenario di tensione che potrebbe rasentare, se non sfociare, nella guerra civile. Lo terzo scenario vede invece la dirigenza europea rinnovarsi, nelle personalità o nella mentalità, e mutare la propria politica. E vi sarebbe molto da cambiare.
La politica del rigore, per cui si è finora optato, mette al primo posto la salvaguardia del sistema bancario e finanziario e dei diritti maturati dai creditori (che in massima parte sono per l’appunto banche private e pubbliche, fondi speculativi/d’investimento privati o sovrani): a tali fini si è pronti a sacrificare l’economia reale produttiva, drenandovi tutte le ricchezze necessarie. Tale politica è iniqua e controproducente. È iniqua perché toglie ai più poveri per dare ai più ricchi, ma soprattutto perché si sono create situazioni paradossali che rasentano la tipologia della truffa. Non solo le banche hanno ottenuto miliardi di euro di denaro pubblico per compensare i loro investimenti sbagliati, ma ricevono dalla BCE denaro ad un tasso d’interesse irrisorio (1% per 36 mesi), molto più basso di quello a cui prestano denaro ai cittadini (quando, sempre più di rado, lo fanno) o agli Stati (che pagano anche il 5-6% d’interesse). Se la BCE destinasse quel denaro all’acquisto diretto dei titoli di debito statali, anziché passare per il tramite delle banche che vi lucrano pesantemente, gli Stati dovrebbero pagare interessi immensamente più bassi e, dunque, sottoporre le rispettive economie a pressioni fiscali incomparabilmente meno opprimenti.
Al contrario, la pressione fiscale a livelli record – e primariamente per pagare il debito pubblico coi relativi interessi, non per garantire servizi ai cittadini come affermano certi spot – comprime il livello di vita della popolazione, il potere d’acquisto dei consumatori e le possibilità di risparmio degl’investitori. Tutto ciò non può che avere un esito depressivo sull’economia, il quale, in un circolo vizioso, si tramuta in minori entrate fiscali, dunque carenza di risorse statali per ripagare il debito, ed in ultimo ulteriore aumento di tasse ed imposte. Il risultato è una grande depressione dalla quale non si può uscire se non cambiando politica. Non c’è nulla di sorprendente. Stiamo parlando di uno scenario analogo a quello verificatosi dopo il 1929. Qualsiasi manuale di storia rileva come la depressione economica internazionale fosse il prodotto delle errate politiche statali, improntate al rigore. Fu la successiva adozione di politiche economiche espansive, di stimolo alla crescita, che permise di uscire dalla crisi. I dirigenti europei stanno ricalcando gli errori che commisero i loro antesignani nei primi anni ’30.
È pur vero che negli anni ’30 il peso del debito pubblico non opprimeva gli Stati, e ciò lasciava loro notevoli margini di manovra per favorire la crescita. Ma da dove deriva quest’odierno fardello del debito pubblico? Ancora una volta, da una stortura del sistema. In omaggio all’ortodossia monetarista, nei decenni scorsi si è separata l’emissione della moneta dalla spesa pubblica: lo Stato non può più stampare moneta, laddove ne abbia necessità, ma deve prenderlo a prestito. A stampare la moneta è un istituto d’emissione privato. Tale sistema è stato escogitato per frenare l’inflazione, ma d’altro canto garantisce notevoli introiti ai detentori di capitali che si fanno creditori degli Stati. L’interesse privato spiega perché ancora oggi, in cui la preoccupazione primaria è la crescita e non certo l’inflazione, il sistema rimanga intatto.
Non si può insomma risolvere la crisi senza un profondo mutamento d’approccio, con l’abbandono dell’ortodossia neoliberale ed il ritorno ad un interventismo “positivo” dello Stato (ossia come investitore nell’economia), in vece dell’attuale interventismo “negativo” (per drenare risorse dai produttori e consegnarle agli speculatori). Ma è veramente un intero sistema che va cambiato. Una recente indagine scientifica condotta da alcuni economisti in Francia ha svelato un ennesimo paradosso della nostra organizzazione socio-economica. La pressione fiscale risulta infatti massima per il ceto medio, salvo calare man mano che si sale nella scala sociale: i ricchissimi versano allo Stato una porzione del proprio reddito relativamente inferiore a quella dei più poveri. La spiegazione data dagli autori dell’indagine (Camille Landais, Thomas Piketty ed Emmanuel Saez) è questa: mentre i ceti medio-bassi dipendono da redditi da lavoro, che sono tassati pienamente e pesantemente, in quelli più alti sono rilevanti soprattutto i redditi da capitale (mobile ed immobile), soggetto invece ad una tassazione molto più blanda, o che ad essa sfugge completamente. E c’è un altro lato inquietante del sistema che favorisce i rentier mentre si accanisce sui lavoratori: ossia che le rendite, per loro natura, si trasmettono per via ereditaria. E nel momento in cui sono le rendite a garantire le massime entrate e la minima pressione fiscale, risulta che chi ha la fortuna d’ereditarle si ritrova immediatamente al vertice della scala sociale, e tende a consolidare la posizione, mentre chi non le eredita, dovendosi affidare al lavoro, si ritrova frenato dal fisco. La mobilità sociale è sostanzialmente neutralizzata: i figli dei ricchi rimangono ricchi, i figli dei poveri restano poveri. Ed i poveri pagano più tasse dei ricchi. Una situazione di privilegio ereditario ed iniquità fiscale che, notano gli autori dell’indagine, ricorda da vicino l’Ancien Regime feudale e pre-rivoluzionario.
Ciò che si è scoperto per la Francia, molto probabilmente vale anche per l’Italia e gli altri paesi occidentali, in cui l’organizzazione socio-economica è similare. È una tendenza consolidata degli ultimi decenni l’aumento della quota della rendita nel reddito nazionale, a scapito dei profitti ed ancor più dei salari. La nostra società è così composta da una maggioranza di produttori, complessivamente sempre meno ricchi, che deve mantenere una minoranza di rentier, complessivamente (e singolarmente) sempre più facoltosi; e nel contempo, deve anche sostenere il grosso della pressione fiscale, una parte considerevole della quale, allo stato attuale, serve per finanziare proprio il pagamento di debiti ed interessi contratti dalla cosa pubblica con i suddetti rentier (anche i produttori investono, ma dispongono di minori capitali per farlo).
Questo tipo d’organizzazione socio-economica è non solo moralmente inaccettabile, ma anche pragmaticamente svantaggiosa ed insostenibile nella pratica. Innanzi tutto, la mancanza di mobilità sociale ed il privilegio ereditario sono la negazione stessa della meritocrazia: l’élite si riproduce per via dinastica, anziché comporsi con coloro che si distinguono nella vita pubblica. In secondo luogo, l’oppressione d’una classe di rentier parassitari sui produttori è negativa per la vitalità dello Stato, poiché – come dice la parola stessa – sono questi ultimi stessi a produrre beni materiali ed intellettuali che portano sviluppo e creano ricchezza. Infine, la storia insegna che, per quanto l’iniquità sia un elemento presente in tutte le società d’ogni epoca, quando essa raggiunge livelli inaccettabili si generano disordini e, alla lunga, rivoluzioni. Dunque, non solo considerazioni morali, ma anche pratiche dovrebbero suggerire alle dirigenze europee di riformare il sistema socio-economico attuale, anche se questo significherà ovviamente rinunciare a privilegi personali e familiari. E, se ciò non dovesse accadere, toccherà ai cittadini incoraggiare i dirigenti a farlo.