di Salvatore Denaro
La regione del Kachin situata nel nord della Birmania al confine con India e Cina, abitata da circa un milione e mezzo di persone, una volta era una terra piena di storia, tradizione e dalle mille ricchezze naturali: da oltre cinquant’anni, tuttavia, rappresenta un luogo di guerra, di povertà e di diritti umani negati. Colpa di una guerra civile infinita che periodicamente scatena l’esercito birmano contro le milizie del KIA, coinvolgendo gran parte della popolazione Kachin.
Nel 1948 la Birmania raggiunse l’indipendenza dalla colonizzazione inglese e buona parte del territorio venne rimesso nelle mani dei capi locali, sia pur ancora sotto il controllo indiretto dell’Inghilterra. In quella fase transitoria ed incerta dal punto di vista politico ed amministrativo, la speranza di tutti i gruppi etnici era quella di ottenere al più presto un’indipendenza funzionale alla creazione di uno Stato federale, capace di proteggere le diversità in virtù del principio di autodeterminazione. Ciò non è mai avvenuto. I governi centrali, dalla dittatura di Ne Win al regime militare, oltre ad essere stati contraddistinti da una forte tendenza accentratrice, hanno sempre attuato politiche discriminatorie verso le minoranze etniche. Nel 1994 fu firmato il cessate il fuoco in virtù del quale le truppe regolari avrebbero dovuto abbandonare la regione del Kachin e restituire il controllo militare ed amministrativo al KIA. Purtroppo gli accordi non sono stati mantenuti visto che l’esercito governativo, oltre a continuare a mantenere il controllo militare dell’area, confisca terre, viola puntualmente i diritti umani delle minoranze con l’obiettivo di attuare una vera e propria pulizia etnica: lavori forzati, omicidi e violenze sulle donne rappresentano gli strumenti maggiormente adoperati dai militari governativi nei confronti della popolazione Kachin. Una situazione insostenibile che ha riacceso le ostilità tra le milizie indipendentiste e l’esercito regolare dopo 17 anni di cessate il fuoco.
Se stabilire delle cifre esatte sembra essere complicato, malgrado le deboli rassicurazioni di Pechino non sembrano esserci invece dubbi sulle condizioni in cui versano i profughi dello Yunnan. Lo scorso agosto imponenti operazioni di respingimento dei profughi da parte delle autorità cinesi avrebbero ricondotto circa 5.000 profughi nuovamente nelle zone di conflitto. Pechino nega tutto e attraverso il Ministro degli Esteri, Yang Jiechi, ha affermato che non c’è stato nessun respingimento illegale, ma solo dei rimpatri dettati dall’attenuarsi del conflitto e dal conseguente miglioramento delle condizioni di sicurezza. Una contraddizione con il modo con cui la Cina continua a gestire l’emergenza profughi. Nel rapporto di HRW “Isolated in Yunnan – Kachin Refugees from Burma in China’s Yunnan Province” emergono non solo le condizioni disumane in cui versano i profughi, ma sullo sfondo anche un quadro politico chiaro che conferma il Myanmar come partner privilegiato e strategico della Cina.
“Quando andiamo a fare un bagno nel fiume, le autorità cinesi sempre ci molestano … ci fermano e ci fanno domande. E sempre ci seguono. Ci seguono e ci urlano dietro. Non mi sento molto sicuro” – “ non abbiamo materassi sul pavimento e durante la notte non abbiamo nulla per ripararci dal freddo. Spesso il pavimento è bagnato e dormiamo su dei fogli di plastica …”: queste sono le parole di un rifugiato Kachin che HRW ha riportato nel rapporto in questione e che in qualche modo dimostrano che la priorità della Cina non sembra quella di adempiere agli obblighi internazionali e di fornire assistenza ai profughi, ma quello di non compromettere i rapporti con il governo di Naypydaw e di salvaguardare gli interessi economico-strategici che entrambi gli Stati perseguono.
La Cina rappresenta, oggi più che mai, un investitore imprescindibile per l’economia del Myanmar visto che l’India comincia ad essere più diffidente nei confronti di un territorio in cui il legame sino-birmano è sempre più forte. Gli investimenti cinesi più importanti si concentrano nel settore idroelettrico e minerale, senza dimenticare che proprio nell’area del Kachin gli interessi riguardano anche il settore ortofrutticolo.
Nonostante il nuovo Presidente birmano, Thein Sein, abbia inaugurato una nuova politica molto più aperta verso gli investitori occidentali insieme all’introduzione di sbiadite misure democratiche nell’amministrazione del Paese (soprattutto nel campo della libertà d’informazione), la questione dei diritti umani delle minoranze etniche appare lontana dall’agenda politica del governo birmano. A tal proposito, in occasione di un seminario di studio tenutosi lo scorso giugno presso la London School of Economics, un membro dell’organizzazione pro Kachin ha chiesto ad Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace e da qualche mese deputata presso il Parlamento birmano, come mai non abbia preso una posizione chiara sulle violenze subite dalla comunità Kachin e in generale sulla ripresa delle ostilità fra le milizie del KIA e l’esercito regolare. Aung San Suu Kyi, visibilmente irritata da questa domanda, ha risposto affermando che la denuncia di ciò che avviene al confine tra Cina e Myanmar non rappresenta la soluzione del conflitto. Secondo il premio Nobel, l’ingresso degli osservatori ONU nelle aree più colpite dovrebbe essere un primo passo verso la risoluzione dell’emergenza umanitaria.
Tra l’immobilismo e, per certi versi, l’impotenza della comunità internazionale, gli scenari futuri appaiono molto incerti. Malgrado le critiche ricevute, Aung San Suu Kyi grazie alle sue battaglie e alla sua storia potrebbe avere una parte determinante nella soluzione delle controversie tra il governo centrale e le varie etnie del Myanamr, un ruolo di mediazione auspicato dalle stesse minoranze dopo la sua elezione in Parlamento e reso necessario ed urgente dall’inarrestabile emergenza umanitaria in corso.
* Salvatore Denaro è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)