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Prologo di Lover Unbound

Creato il 03 settembre 2010 da Junerossblog
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Per gentile concessione di Mondolibri, eccovi un "morso" del nuovo romanzo in uscita:

Black Dagger Brotherhood: Lover Unbound

Dedicato a: Te.
All’inizio ti ho frainteso
e me ne scuso.
È proprio da te essere intervenuto comunque,
salvando così non solo lui,
ma anche me.
Con immensa gratitudine ai lettori
della Confraternita del Pugnale Nero
e in particolare alle ragazze!
Non tirerò neanche più in ballo il divano,
siete in troppi.
Prologo

Greenwich Country Day School
Greenwich, Connecticut
Vent’anni fa.
«Dai, prendilo, Jane.»
Jane Whitcomb afferrò lo zaino. «Però vieni, vero?»
«Te l’ho già detto stamattina. Sì.»
«Va bene.» Jane seguì con gli occhi l’amica che si allontanava lun-
go il marciapiede finché sentì un colpo di clacson. Sistemandosi la
giacca, raddrizzò le spalle e si voltò verso una Mercedes-Benz. Al vo-
lante, sua madre guardava fuori dal finestrino, la fronte aggrottata.
Jane si affrettò ad attraversare la strada; lo zaino faceva troppo
rumore per i suoi gusti – ci aveva nascosto dentro una cosa che
doveva restare segreta. Saltò sul sedile di dietro nascondendolo ai
suoi piedi; l’auto ripartì prima che avesse chiuso la portiera.
«Tuo padre torna a casa stasera.»
«Come?» fece Jane spingendosi gli occhiali in cima al naso.
«Quando?»
«Stasera. Quindi temo che…»
«No! Me l’avevi promesso!»
Sua madre le lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Scusi tanto,
signorina.»
«Me l’avevi promesso per il mio tredicesimo compleanno», pia-
gnucolò Jane con gli occhi lucidi. «Ero già d’accordo con Katie e
Lucy…»
«Ho già avvertito le loro mamme.»
Jane si lasciò andare contro il sedile.
Sua madre la guardò attraverso lo specchietto retrovisore. «Le-
vati quell’espressione dalla faccia, per favore. Credi di essere più
importante di tuo padre? Eh?»
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«No di certo. Lui è dio.»
La Mercedes sterzò bruscamente verso il ciglio della strada con
uno stridore di freni. Sua madre si voltò completamente, alzò la
mano e rimase in posa, il braccio tremante.
Jane si ritrasse inorridita.
Dopo un attimo di violenza sospesa, sua madre si voltò, liscian-
dosi i capelli già perfettamente lisci col palmo fermo come acqua
bollente. «Tu… tu non cenerai con noi, stasera. E darò ordine di
buttare via la tua torta.»
L’auto ripartì.
Jane si asciugò le guance abbassando gli occhi sullo zaino. Era
la prima volta che invitava le amiche a passare la notte da lei. Erano
mesi che supplicava di poterlo fare.
Rovinato. Adesso era tutto rovinato.
Rimasero in silenzio per tutto il tragitto; dopo aver parcheggiato
in garage sua madre scese dalla Mercedes ed entrò in casa senza
voltarsi.
«Sai dove andare», fu tutto ciò che disse.
Jane rimase in macchina, cercando di riprendersi. Poi prese zaino
e libri e si trascinò attraverso la cucina. Richard, il cuoco, chino
sopra la pattumiera, stava spingendo giù da un piatto una torta ri-
coperta di glassa bianca con sopra dei fiorellini rossi e gialli.
Jane non gli disse niente perché aveva un groppo un gola. Nean-
che Richard le disse niente perché Jane gli stava antipatica. A lui
piaceva solo Hannah.
Jane passò in sala da pranzo; non aveva voglia di incrociare la
sua sorellina e si augurò che Hannah fosse già a letto. Quella mat-
tina non stava bene. Forse perché doveva preparare il riassunto di
un libro per la scuola.
Andando verso lo scalone, vide sua madre in salotto.
I cuscini del divano. Di nuovo.
Sua madre aveva ancora addosso il cappotto di lana celeste e
stringeva in mano il foulard di seta e di sicuro sarebbe rimasta così
finché non fosse stata soddisfatta di come apparivano i cuscini. Il
che poteva voler dire parecchio tempo. Il termine di paragone era
lo stesso dei capelli: la perfezione assoluta.
Jane salì in camera sua. La sua unica speranza, a quel punto, era
che suo padre arrivasse dopo cena. Così almeno, pur sapendo che
lei era in punizione, non sarebbe stato costretto a guardare la sua
sedia vuota. Proprio come sua madre, anche lui detestava il minimo
disordine, e non vederla a tavola era il massimo del disordine.
La ramanzina che le avrebbe riservato, in tal caso, sarebbe stata
ancora più lunga perché avrebbe dovuto includere sia la delusione
che aveva procurato alla sua famiglia con la sua assenza a cena sia
il fatto che era stata sgarbata con sua madre.
Al piano di sopra, la sua camera da letto giallo ranuncolo era
come tutto il resto, in casa: impeccabile come i capelli di sua ma-
dre, i cuscini del divano e il modo in cui ci si doveva esprimere.
Niente fuori posto. Tutto ingessato nella gelida perfezione delle ri-
viste di arredamento.
La sola cosa che sfuggiva a quello schema era Hannah.
Lo zaino finì dentro l’armadio, sopra le file di mocassini e scarpe
col cinturino; poi Jane si tolse l’uniforme scolastica e si infilò una
lunga camicia da notte di flanella. Non c’era motivo di vestirsi di-
versamente, tanto non sarebbe andata da nessuna parte.
Portò la pila di libri sulla scrivania bianca. Aveva dei compiti di
inglese. Algebra. Francese.
Lanciò un’occhiata al comodino. Le mille e una notte la aspet-
tavano.
Non le veniva in mente modo migliore per passare il tempo men-
tre era in punizione, ma prima di tutto c’erano i compiti. Per forza.
Altrimenti si sarebbe sentita troppo in colpa.
Due ore dopo era a letto con Le mille e una notte in grembo.
All’improvviso la porta si aprì e Hannah fece capolino nella stanza.
I suoi ricci rossi erano un’altra deviazione dalla norma. A parte lei,
tutti in famiglia erano biondi. «Ti ho portato qualcosa da man-
giare.»
Jane si rizzò a sedere, preoccupata per la sorellina. «Ti caccerai
nei pasticci.»
«No.» Hannah sgattaiolò dentro; in mano aveva un cestino co-
perto da un tovagliolo di percalle con sopra un panino, una mela
e un biscotto. «Me l’ha dato Richard; ha detto che così stasera po-
tevo fare uno spuntino.»
«E tu?»
«Io non ho fame. Ecco, prendi.»
«Grazie, Han.» Jane prese il cestino mentre Hannah si sedeva
in fondo al letto.
«Allora, cos’hai combinato?»
Jane scosse la testa, addentando il panino al roast-beef. «Mi sono
arrabbiata con la mamma.»
«Perché non ti ha lasciato fare la tua festa?»
«Uh-huh.»
«Be’… ho qui qualcosa che ti tirerà su di morale», così dicendo,
Hannah fece scivolare sul piumone un cartoncino colorato. «Buon
compleanno!»
Jane guardò il biglietto e batté le palpebre un paio di volte.
«Grazie… Han.»
«Non essere triste, ci sono qua io. Guarda il biglietto! L’ho fatto
per te.»
Su primo foglio, tracciate dalla mano maldestra di sua sorella,L, c’erano due figurine stilizzate. Una aveva i capelli biondi e lisci e
ai suoi piedi c’era scritto Jane. L’altra aveva i capelli rossi e ricci e
sotto c’era scritto Hannah. Si tenevano per mano e avevano un gran
sorrisone sui faccini tondi.
Proprio mentre Jane si apprestava ad aprire il biglietto, un paio
di fari spazzarono la facciata della casa risalendo il viale d’accesso.
«È arrivato papà», bisbigliò Jane. «Farai meglio ad andare via.»
Hannah non sembrava preoccupata come ci si poteva aspettare,
forse perché non stava bene. O forse era distratta da… be’, dalle
cose che la distraevano di solito. Hannah era quasi sempre immersa
nelle sue fantasticherie, il che forse spiegava perché era sempre al-
legra.
«Vai, Han, sul serio.»
«Va bene. Ma mi dispiace davvero che la tua festa sia saltata»,
disse Hannah strascicando i piedi fino alla porta.
«Ehi, Han? Mi piace il biglietto.»
«Non lo hai neanche aperto.»
«Non ce n’è bisogno. Mi piace perché l’hai fatto per me.» Il
volto di Hannah si aprì in uno dei suoi sorrisi radiosi; ogni volta
che li vedeva, Jane pensava ai giorni di sole. «Parla di me e di te.»
Mentre la porta si chiudeva, Jane udì le voci dei suoi genitori
nell’atrio. Divorò in fretta e furia lo spuntino di Hannah, nascose
il cestino tra le pieghe delle tende vicino al letto e andò a rovistare
tra i libri scolastici. Tornò a letto con Il Circolo Pickwick di Dickens.
Se entrando suo padre l’avesse trovata a leggere roba di scuola,
forse la cosa le avrebbe fatto guadagnare dei punti.
I suoi genitori salirono di sopra un’ora dopo e Jane si irrigidì,
aspettandosi di sentire bussare suo padre. Ma così non fu.
Strano. Nella sua mania di controllare sempre tutto, era preciso
come un orologio svizzero e la sua prevedibilità aveva un che di
stranamente confortante, anche se a Jane non piaceva avere a che
fare con lui.
Mise da parte Il Circolo Pickwick, spense la luce e infilò le gambe
sotto il piumone ornato di gale. Sotto il baldacchino del letto non
riusciva a prendere sonno; a un certo punto sentì la pendola in
cima alle scale battere dodici volte.
Mezzanotte.
Sgattaiolò giù dal letto, andò all’armadio, tirò fuori lo zaino e
aprì la cerniera. La tavola ouija cadde fuori, aprendosi e atterrando
a faccia in su sul pavimento. Jane la raccolse con una smorfia, te-
mendo che potesse essersi rotta o roba del genere, poi prese il pun-
tatore.
La tavola ouija era una tavoletta con sopra le lettere dell’alfa-
beto e serviva per comunicare con gli spiriti e ricevere messaggi
dall’Aldilà. Lei e le sue amiche morivano dalla voglia di giocare
per scoprire chi avrebbero sposato. A Jane piaceva un ragazzo che
si chiamava Victor Browne, che frequentava il suo corso di mate-
matica. Ultimamente avevano chiacchierato un po’ e lei era con-
vinta che potessero fare coppia. Purtroppo non era sicura dei sen-
timenti di Victor nei suoi confronti. Forse lei gli piaceva solo per-
ché gli suggeriva le risposte giuste.
Mise la tavoletta sul letto, posò le mani sul puntatore e fece un
bel respiro. «Come si chiama il ragazzo che sposerò?»
Non si aspettava che quel coso si muovesse. E infatti non si mosse.
Dopo un altro paio di tentativi, si abbandonò contro la testiera
del letto in preda alla frustrazione. Un minuto dopo picchiò sul
muro alle sue spalle. Sua sorella rispose battendo a sua volta; poco
dopo, Hannah sgattaiolò nella stanza. Appena vide il gioco, saltò
sul letto euforica, lanciando per aria il puntatore.
«Come si gioca?»
«Shh!» Dio, se le beccavano adesso erano fregate. Per sempre.
«Scusa.» Hannah piegò le ginocchia contro il petto e strinse le
braccia intorno alle gambe cercando di trattenersi. «Come si…»
«Tu fai delle domande e la tavola ti risponde.»
«Cosa possiamo chiedere?»
«Chi sposeremo.» E va bene, adesso Jane era nervosa. E se la
risposta non fosse stata Victor? «Cominciamo da te. Appoggia le
dita sul puntatore, però non spingere o roba del genere. Solo…
così, brava. Okay… Chi sposerà Hannah?»
Il puntatore non si mosse. Neanche dopo che Jane ebbe ripe-
tuto la domanda una seconda volta.
«È rotto», disse Hannah ritraendosi.
«Fammi provare con un’altra domanda. Rimetti su le mani.» Jane
trasse un profondo respiro. «Chi sposerò io?»
Dalla tavola si levò come uno stridio e il puntatore cominciò a
muoversi. Quando si fermò sulla lettera V, Jane fu scossa da un
fremito. Col cuore in gola lo guardò spostarsi sulla lettera I.
«È Victor!» esclamò Hannah. «È Victor! Sposerai Victor.»
Jane non si curò di zittirla. Era troppo bello per essere…
Il puntatore si fermò sulla lettera S. S?
«È sbagliato», disse Jane. «Dev’essere sbagliato…»
«Non fermarti. Vediamo chi è.»
Ma se non era Victor, Jane proprio non sapeva chi potesse es-
sere. E poi chi, tra i maschi della sua classe, aveva un nome che
iniziava per Vis…
Jane lottò per deviare il puntatore, ma quello insistette per an-
dare sulla lettera H. Poi sulla O, sulla U e infine ancora una volta
sulla S.
VISHOUS.
Jane si sentì raggelare.
«Te l’avevo detto che era rotto», farfugliò Hannah. «Chi sarebbe
questo Vishous?»
Jane distolse lo sguardo dalla tavola, poi si accasciò contro i cu-
scini. Quello era il peggiore di tutti i suoi compleanni.
«Forse dovremmo riprovare», disse Hannah. Vedendo che Jane
esitava, si accigliò. «Dai, non è giusto. Voglio una risposta anch’io.»
Rimisero le dita sul puntatore.
«Cosa riceverò per Natale?» chiese Hannah.
Il puntatore non si mosse.
«Comincia con un sì o con un no», suggerì Jane, ancora scossa
dalla risposta di poco prima. Forse la tavoletta aveva dei problemi
di ortografia?
«Riceverò qualcosa a Natale?» chiese Hannah.
Il puntatore cominciò a muoversi con un leggero cigolio.
«Spero che sia un cavallo», mormorò Hannah mentre il punta-
tore si spostava sulla tavoletta. «Avrei dovuto chiedergli questo.»
Il puntatore si fermò sul no.
Le due bambine lo fissarono.
«Anch’io voglio dei regali», piagnucolò Hannah, stringendosi le
braccia intorno al corpo.
«È solo un gioco», disse Jane, chiudendo la tavola. «E poi dev’es-
sere proprio rotto. Prima mi è caduto.»
«Io voglio dei regali.»
Jane abbracciò forte sua sorella. «Non preoccuparti di questa
stupida tavola, Han. Io ti regalerò sempre qualcosa per Natale
Quando Hannah se ne andò, poco dopo, Jane si infilò di nuovo
sotto le coperte.
Stupido gioco. Stupido compleanno. Stupido tutto.
Chiuse gli occhi e le venne in mente che non aveva letto il bi-
glietto di sua sorella. Accese di nuovo la luce e lo prese dal co-
modino. Dentro c’era scritto: Ci terremo sempre per mano! Ti vo-
glio bene! Hannah.
Quella risposta sul Natale era sbagliatissima. Tutti adoravano
Hannah e la riempivano di regali. Hannah riusciva addirittura a far
cambiare idea a papà, a volte, e nessun altro ci riusciva. Quindi
per forza avrebbe ricevuto qualcosa in regalo.
Stupido gioco…
Dopo qualche minuto, Jane si addormentò. Doveva essere così
perché venne svegliata da Hannah.
«Stai bene?» chiese Jane rizzandosi a sedere. Sua sorella era
ferma accanto al letto con addosso la camicia da notte di flanella
e una strana espressione sul viso.
«Devo andare», disse. Aveva una voce triste.
«In bagno? Ti viene da vomitare?» Jane spinse via le coperte.
«Vengo con t…»
«Non puoi», disse Hannah con un sospiro. «Devo andare.»
«Be’, quando avrai finito di fare quello che devi fare puoi ve-
nire a dormire qui con me, se vuoi.»
Hannah guardò la porta. «Ho paura.»
«Essere malati è una cosa che fa paura. Ma io sarò sempre qui
per te.»
«Devo andare.» Quando Hannah si voltò a guardarla sembrava…
molto più grande, in un certo senso. Non la bambina di dieci anni
che era in realtà. «Cercherò di tornare. Farò del mio meglio.»
«Uhm… va bene.» Forse sua sorella aveva la febbre o roba del
genere? «Vuoi andare a svegliare la mamma?»
Hannah scosse la testa. «Voglio vedere solo te. Rimettiti a dor-
mire.»
Hannah uscì e Jane si rimise giù sui cuscini. Pensò di andare a
controllare sua sorella in bagno, ma il sonno la vinse prima che
avesse il tempo di seguire quell’impulso.
Il mattino dopo Jane venne svegliata da un rumore di passi pesanti
che correvano, fuori in corridoio. All’inizio pensò che qualcuno
avesse fatto cadere qualcosa che aveva lasciato una macchia su un
tappeto, una sedia o un copriletto. Poi però sentì le sirene del-
l’ambulanza nel vialetto.
Scese dal letto e andò a guardare fuori dalla finestra, poi sbir-
ciò in corridoio. Suo padre stava parlando con qualcuno, al piano
di sotto, e la porta della camera di Hannah era aperta.
In punta di piedi, Jane si avvicinò camminando sulla passatoia
orientale. Sua sorella di solito non si alzava così presto, al sabato.
Doveva essere proprio malata.
Si fermò sulla soglia. Hannah era stesa sul letto, immobile, gli
occhi spalancati verso il soffitto, la pelle bianca come le lenzuola
su cui era sdraiata.
Non batteva le palpebre.
Nell’angolo in fondo alla stanza, il più lontano possibile da Han-
nah, la loro madre era seduta nel sedile incassato nella finestra; la
vestaglia di seta color avorio formava come una pozza sul pavi-
mento. «Torna a letto. Subito.»
Jane corse in camera sua. Mentre chiudeva la porta, vide suo pa-
dre salire le scale con due uomini in uniforme blu scuro. Parlava
in tono autoritario e lei colse solo le parole … cardiaco congenito.
Balzò nel letto e si tirò le lenzuola fin sopra la testa. Tremante,
al buio, si sentiva molto piccola e molto spaventata.
La tavola aveva ragione. Hannah non ricevette nessun regalo,
quel natale, e non sposò nessuno.
La sorellina di Jane mantenne la promessa, però. Tornò per dav-
vero.
E il resto ce lo direte voi quando lo avrete letto!

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