Ieri è stato eseguito l’ennesimo sequestro di una ditta cinese che operava in un capannone nella zona industriale di Prato.
E’ un avvenimento quasi quotidiano, e la scena che le Forze dell’Ordine si sono trovate davanti è pressappoco sempre la stessa: una lunga sequenza di macchine da cucire e di macchinari per tagliare i tessuti, svariati lavoratori (rigorosamente cinesi) intenti nel loro lavoro, ed un responsabile anch’esso cinese, che è solitamente l’unico in possesso di documenti di riconoscimento ed anche l’unico a parlare l’italiano, al contrario degli altri che se pur conoscono la nostra lingua fingono il contrario (questa è una delle consegne tassative che i loro “sfruttatori” gli impongono).
Inoltre, come da prassi, all’interno del capannone erano opportunamente occultati, con pile di scatoloni, ambienti separati dove i lavoratori hanno i loro posti letto, le loro mini-cucine e spesso i loro figli che, ancor troppo piccoli, non frequentano ancora le scuole dell’infanzia.
Prato è una realtà industriale molto particolare, regina nel campo dei tessuti (e della ricerca..) da sempre, ma anche in declino negli ultimi anni a causa del differente flusso distributivo del lavoro in generale, oltre che del particolare interesse del mondo cinese per questo distretto industriale e per il settore dell’abbigliamento in particolare.
E’ noto che la produzione dell’abbigliamento sia oggi in mano alle ditte cinesi che a Prato, ma anche in altre realtà del nostro Paese, fanno incetta di commesse a basso costo, sbaragliando la concorrenza per accaparrarsi la quasi totalità del mercato.
Impossibile competere per chi non utilizza i loro sistemi e la mano d’opera a bassissimo costo, anche le grandi firme sono ormai totalmente in mano di queste realtà, in modo da avere quei margini di guadagno elevatissimi che spesso risuonano ingiustificati rispetto a prodotti che hanno ben poco della qualità eccellente che i clienti si aspetterebbero pagando cifre altissime per i prodotti delle collezioni più di moda.
Siamo in un vortice dal quale non sappiamo come uscire, da una parte la necessità di avere prodotti a basso costo per competere sui mercati, dall’altra l’impossibilità di realizzarli senza ricorrere a quei lavoratori cinesi-indiani-pakistani, che permettono di operare sui mercati mantenendo quei guadagni elevati cui gli imprenditori italiani sempre più non vogliono rinunciare.
Dobbiamo però uscire dall’ipocrisia che pervade la nostra società per altre ma anche per queste realtà!
Da una parte mandiamo, ci appelliamo e lodiamo le nostre Autorità – preposte al controllo del territorio e del rispetto delle regole – per far sì che illegalità quali quelle del lavoro nero, sottopagato, senza diritti (oltre alla concorrenza sleale..) dei lavoratori cinesi siano debellate e sanzionate, dall’altra i nostri imprenditori fanno la fila davanti alle centinaia di ditte cinesi (c.d. pronto moda..) sparpagliate sul territorio, per acquistare prodotti di qualità ormai nemmeno troppo bassa, ma a basso costo, in modo da realizzare altissimi margini di guadagno.
Cosa vogliamo davvero?
Il rispetto delle regole, il rispetto della dignità umana e dei lavoratori, oppure vogliamo, anche sfruttando i nostri fratelli cinesi, indiani, pakistani, ottenere il nostro benessere e la nostra individualistica (o egoistica!) realizzazione economica?
Delle due l’una, bisogna scegliere, e l’uomo quale essere pensante può e deve farlo, l’ipocrisia non può durare in eterno…
nanni
Magazine Attualità
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